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La forma della voce: recensione dell’anime di Naoko Yamada

La complessità dei rapporti tra adolescenti dà il là ad un discorso ben più ampio e profondo in La forma della voce, per un altro anime di spessore, diretto dalla giovane Naoko Yamada

pubblicato 18 Ottobre 2017 aggiornato 28 Agosto 2020 00:53

Shoko Nishimiya entra in classe e tutti la guardano. È l’ultima arrivata, e all’elementari, si sa, i bambini tendono ad essere cattivi. La bimba è infatti sordomuta e la maestra fa notare che l’unico modo per comunicare con lei è attraverso carta e penna: tanto basta per indisporre la scolaresca. Tra chi mormora, chi è incuriosito, chi semplicemente ha già deciso che una così merita di essere tormentata, ché quello è il ruolo di chi s’arrischia ad intromettersi in dinamiche consolidate. Non sembra, infatti, ma quella classe, composta da persone così giovani, è regolata da equilibri formatisi nel tempo, che ciascuno avverte come passato, quantunque magari il tutto risalga all’anno precedente – per ciascuno di loro una vita.

Shoya Ishida è colui che prende più di tutti sul serio la questione, cominciando dapprima con lo stuzzicare Shoko, salvo poco alla volta aumentare l’intensità delle angherie per via della risposta, sistematica, della piccola: un sorriso. Più infatti viene presa di mira, più Shoko cerca di essere lei comprensibile; prende per mano Shoya, cerca di convincerlo di essere sua amica… ma niente, lui non ne vuole sapere. Finché la misura non diventa colma ed allora a Shoko non resta che l’estremo rimedio: cambiare scuola. Solo allora ci si rende conto che abbiamo assistito ad un lungo prologo; che l’escalation che ha avuto per protagonisti i due ragazzini non è stata altro che una sorta di elaborato flashback, tuttavia fondamentale.

La forma della voce ha al proprio interno tante cose. Ad un certo punto viene da pensare a come una storia del genere sarebbe stata depotenziata, per certi versi limitata da un approccio diverso dall’animazione, diventando magari l’ennesimo film a tesi dal quale sarebbe emersa solo l’immane fatica nel dribblare la retorica, oppure, viceversa, la goffaggine dello sguazzarci. Ed invece la brava Naoko Yamada, con questo suo teen drama, vuole portarci dentro, condurci attraverso questa nient’affatto semplice rete di rapporti tra adolescenti, che restano tali a dispetto della complessità delle loro interazioni.

L’animazione qui serve ad accorciare le distanze in maniera sublime, quantunque non dimentica del pubblico al quale si rivolge, essenzialmente ragazzini, orientativamente tra gli 8 e i 16 anni. Ma insomma, certe etichette stanno sempre un po’ scomode; si vede che non aderiscono del tutto, e servono più per chi il prodotto deve piazzarlo anziché per chi del film vuole parlarne davvero. Ed allora diremo che il suo essere film animato, in particolar modo giapponese, informa anche altro, quell’altro che senza dubbio rientra a prescindere nell’indole degli autori (qualcuno lo chiamerebbe stile, ma trattandosi di un termine alquanto scivoloso, eviterei): inquadrature e montaggio in primis. La forma della voce su questo fronte è infatti molto attento, osando qua e là quanto basta per staccarsi dalla monotonia ma non troppo per distogliere l’attenzione dalla vicenda.

Pure perché è la sua profondità a fare la differenza. C’è una prima parte in cui la frustrazione di Shoko per via di questa incomunicabilità diventa la tua frustrazione, e bisogna dire che davanti a una fattispecie del genere si resta un po’ inermi: c’è tutto un mondo nella testa di quella bimba, un mondo che non può essere però veicolato attraverso qualche frase su un blocco note, perché è fatto per essere restituito sul momento, senza filtri, perciò attraverso l’immediatezza, l’inflessione, il suono del parlato. Perciò, mentre da una parte ci stringe il cuore, dall’altro ci dà modo di ragionare su una condizione, per lo più calata in un contesto, che è quello specifico della giungla scolastica.

E come nei film di Miyazaki, non esistono “cattivi”, bensì personaggi che commettono cattiverie, talvolta in maniera addirittura motivata. Emerge infatti tutta un’elaborazione del senso di colpa che finisce con l’essere il vero leitmotiv de La forma della voce, nonché l’aspetto più atipico ed in un periodo come questo finanche “sovversivo”, dato che cose del genere piace pensare siano state definitivamente archiviate. Mentre, al contrario, è lo struggersi di questi ragazzini con quanto fatto o non fatto qualche anno prima a reggere la baracca; questo loro confrontarsi con ciò che erano prima, volendo prenderne le distanze o più semplicemente sentendosene vittime.

Chissà, forse la cultura alla quale fa riferimento la Yamada è oramai relegata a poche sacche di resistenza, più o meno estese, ma pur sempre minoritarie; eppure colpiscono, e manco poco, certi continui inchini, quest’attenzione per una non meglio precisata riprovazione sociale, che non è mai di facciata: diversamente non si spiegherebbe l’imbarazzo anche al di fuori di contesti eminentemente sociali, che spingono addirittura alcuni a contemplare il suicidio. Si prenda Ishida: da piccolo un bulletto di quartiere che vive a proprio agio con i suoi compagni questa sua dimensione, per poi sviluppare, qualche anno più tardi, una sorta di patologia per cui non riesce nemmeno a guardare in faccia gli altri.

L’organicità dei profili messi in campo è infatti encomiabile, ed è ciò che impreziosisce, anzi, rende proprio credibile una storia in cui alla fine si tratta di turbe infantili/adolescienziali. La Yamada non sottilizza, ma nemmeno esaspera, offrendo peraltro spaccati che trasudano una verità che non si capisce come avrebbe dovuto fare a conseguirla, intatta, un film per così dire in live action – viene in mente la litigata tra Ishida e Nishimiya, con loro che se le danno di santa ragione, e noi che li si osserva come se fossero stati registrati dal vivo. Con la solita attenzione per i dettagli, contribuendo al dispiegarsi di un ambiente vivo, in continuo mutamento, in cui finanche un atto apparentemente banale come avvicinare con le proprie bacchette un pezzo di okonomiyaki alla bocca di un’altra persona fa la differenza.

Un film su cui si potrebbe scrivere a oltranza, sebbene non si tratti solo di quello, come non di rado accade anche con alcuni tra i più modesti; La forma della voce si sofferma non tanto sui ricordi ma su come ci capita dir porci rispetto ad essi. E mentre un occidentale tende magari ad operare una selezione tra ciò che gli piace e ciò che preferisce rimuovere (come in parte illustrato a suo tempo in Inside Out), all’altro capo del globo si è consapevoli che certe cose non si piegano ad una scrematura così forzata, costringendoci perciò a fare i conti anzitutto con quelli meno edificanti, i quali, non di rado, sono peraltro gli stessi che incidono di più su ciò che siamo. Al centro, dei ragazzini il cui unico problema è quello di non saperne abbastanza, di avere interiorizzato troppo, prestando il fianco ad errori che sembrano talvolta irrimediabili. Mentre invece non è così, ma per rendersene conto può rivelarsi indispensabile toccare il baratro. Noi attraverso loro. Noi siamo (stati) loro: Ishida, Nishimiya, Nagatsuka, Ueno, Sahara, Kawai e tutti gli altri.

[rating title=”Voto di Antonio” value=”8″ layout=”left”]

La forma della voce (Eiga Koe no Katachi, Giappone, 2016) di Naoko Yamada. Con Miyu Irino, Saori Hayami, Aoi Yuki, Kensho Ono, Yûki Kaneko, Yui Ishikawa, Megumi Han, Toshiyuki Toyonaga, Mayu Matsuoka e Shoko Nakagawa. Nelle nostre sale solo 24 e 25 ottobre 2017.