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Tomb Raider: recensione in anteprima

Nei mesi scorsi ci si è domandati come gli autori avrebbero “giustificato” il reboot di Tomb Raider. Peccato che il film non fornisca molti indizi in tal senso

pubblicato 14 Marzo 2018 aggiornato 27 Agosto 2020 22:20

Lara sfreccia per le vie di Londra in sella alla sua bici. Anzi no, adesso le prende durante un allenamento da una ragazza più allenata di lei. Poi di nuovo in sella, a consegnare cibo per un ristorante gestito da indiani. A Lara non piace che gli altri pensino che sia stupida, ed infatti, in più di un’occasione, interrompe il suo interlocutore deducendo tale pensiero, sebbene in ciascuna di queste nessuno abbia sottovalutato la giovane a tal punto. È lei, piuttosto, che cita Shakespeare per poi quasi vergognarsene; in più è ferrata in Storia e Archeologia, ma a ‘sto giro si tende a soprassedere pure su questo punto.

Reboot un po’ strano, Tomb Raider segue con qualche anno di ritardo la medesima sorte avvenuta alla saga videoludica, forse nel tentativo di riavvicinarsi a delle generazioni che evidentemente non sono le stesse rispetto a quelle che solevano chiudere il maggiordomo della Croft Mansion nel congelatore (chi ha giocato i primi titoli sa). Ma se in quell’ambito il senso tutto sommato non sfuggiva, in sala si fatica un po’ di più a comprendere: arrivò a pelo quello del 2001 con Angelina Jolie, che difatti non andò male al botteghino, senza però fare sfaceli, quanto basta per un sequel che mise comunque la parola fine al discorso.

Oggi, però, a chi rivolgersi? Quale appeal può avere una saga del genere? Per certi versi il personaggio di Lara Croft è antesignana di un periodo, il nostro, decisamente più attento a certe istanze, con questa protagonista donna calata in un contesto densamente popolato da uomini, coi quali però si relaziona da eroina e non da vittima. In questa nuova versione si prova peraltro, anche per esigenze narrative, a svecchiare, per così dire, il personaggio, rendendolo, per quanto possibile, più umano. Quanto alle esigenze… beh, si parla della primissima Lara, quella che per la prima volta va in missione nel mondo: dalle consegne in bicicletta al dissotterramento di un antico sarcofago giapponese.

Il padre, che ha costruito un impero finanziario, l’ha abbandonata da piccola per seguire il proprio vezzo, quello che lui chiama vocazione, ossia l’archeologia sul campo. Ma anche dopo sette anni Lara non si dà pace e, non appena si apre un minimo spiraglio, decide senza battere ciglio di imbarcarsi in un’avventura che potrebbe portarla a scoprire quale fu la sorte del papà.

Tomb Raider, come accennato, fa capolino in un’epoca strana, di crisi verrebbe da dire, al di là di toni mesti o addirittura catastrofici. Periodo in cui l’imporsi dell’industria videoludica ha spinto le major hollywoodiane a puntare sulla convergenza. Il problema è, e questo reboot lo conferma, che non solo tale convergenza resta ancora una chimera, ma che lato cinema si sta riuscendo addirittura ad esasperare certi assunti oramai di per sé traballanti, tipo che nei videogiochi non conti la scrittura.

Al contrario, alcuni dei titoli di maggior successo recentemente si sono basati su sceneggiature che mutuano molto dal linguaggio cinematografico, il che impone sì delle domande, ma se al cinema si parte da una base del genere per mettere su progetti palesemente costruiti su poche scene d’azione, temo si stia combattendo una battaglia già ampiamente persa. A confermarlo è il successo di produzioni come The Last of Us e, sebbene in misura più contenuta, la saga di Uncharted, che ha peraltro un po’ preso il testimone di Tomb Raider, operando quel processo di “attualizzazione” di cui quel filone lì sentiva il bisogno e per cui non si ci è mossi in tempo.

Il film si basa abbastanza sul videogioco uscito nel 2013, il che per certi versi si rivela beffardo ai danni del primo, dato che ci consente qualche piccolo appunto per evidenziare difetti su cui non si può passare sopra. Nel film, così come nel gioco, viene difatti mostrato il primo omicidio di Lara, qualcosa che, volente o nolente, la cambia per sempre. Ebbene, persino cinque anni fa, in un contesto che ci s’immagina (sbagliando, sottolineo) ben meno scrupoloso rispetto a certi elementi, questo evento viene trattato con maggior riguardo: Lara resta sconvolta, ed il giocatore partecipa di questo suo stato d’animo, che, suppone, comporterà un cambiamento radicale nella protagonista. Nulla di elaborato ma lì per lì funziona.

Qui nulla. Lara uccide un uomo ma un istante dopo è come se niente fosse. Ora, limitare una fattispecie del genere ad una sola possibile reazione è senz’altro sbagliato: è infatti impossibile prevedere come ciascuno reagirebbe a qualunque cosa. Tuttavia è internamente alla narrazione, direi alla strada intrapresa, che un non-sviluppo di questo tipo lascia perplessi: da un lato si vuole un’eroina più alla portata, magari dotata, con un certo istinto, passi, ma pur sempre una ragazza ordinaria alle prese con degli eventi straordinari. Sì, poi però inficca la testa di un energumeno in una pozzanghera finché non schiatta ed un minuto dopo insegue un tizio sospetto per poi sgridarlo come se fosse rincasata per discutere con mamma e papà sul compito di matematica andato male poco dopo aver sistemato la catena della bici.

Lasciando stare l’ironia, almeno su Lara ci si sarebbe aspettato un lavoro più attento, non dico approfondito, mentre invece si è optato per l’azione intesa non semplicemente come genere bensì come un continuo snocciolare informazioni senza pause, giusto per portare avanti la vicenda dall’inizio alla fine. È un po’ la cifra di produzioni di questo tipo, dirà qualcuno, e chi scrive non contesta tutto ciò. Tuttavia non vedo perché un progetto del genere, evidentemente rimaneggiato proprio quanto alla sua scrittura, debba ripiegare solo ed esclusivamente su poche righe di soggetto, peraltro debolucce, e due/tre scene concitate che però si sono già viste una miriade di volte. Vana, per dirne un’altra, risulta la stessa presenza di un Nick Frost, che timbra il cartellino con appena due scene alle quali viene in toto relegata la verve comica – sebbene in futuro chi di dovere pare potrebbe ripensarci e puntare con più convinzione su toni più leggeri.

Tale ostinazione, tale equivoco nel considerare il pubblico di oggi in toto così povero non si spiega nemmeno alla luce di formule di (quasi) sicuro successo come i comic-movie. È come se in bottega fosse un continuo allargare le braccia e dire «senti, questo abbiamo… proviamoci un’altra volta, sai mai». Trovo la Vikander un’ottima Lara Croft sin dal primo trailer, ed infatti il problema non è lei; anzi, la sua presenza consente pure di mettere da parte una certa, ossessiva attenzione sul corpo, poiché Alicia è minuta e di forme non poi così generose, mentre i lineamenti aggraziati del suo viso ben si addicono al tipo di operazione. Manca tutto il resto, anzitutto quel soffio che dia vita all’immagine di una ragazza che resta tutt’al più alla copertina.

[rating title=”Voto di Antonio” value=”5″ layout=”left”] Tomb Raider (USA, 2018) di Roar Uthaug. Con Alicia Vikander, Dominic West, Walton Goggins, Daniel Wu, Alexandre Willaume-Jantzen, Leo Ashizawa, Adrian Collins, Vere Tindale, Hannah John-Kamen, Kristin Scott Thomas e Nick Frost. Nelle nostre sale da giovedì 15 marzo 2018.