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Cannes 2018, Le livre d’image: recensione del film di Jean-Luc Godard

Festival di Cannes 2018: l’ossessione per l’immagine e di nuovo i limiti del linguaggio nell’ultimo, urgente saggio visisvo di Jean-Luc Godard

pubblicato 13 Maggio 2018 aggiornato 27 Agosto 2020 20:23

Da dove cominciare? In una delle prime frasi, e tutte sono sentenze, la voce rauca che commenta le immagini invita a tornare a pensare con le mani; allora ecco mostrata una moviola mentre un montatore maneggia della pellicola. L’immagine ci tormenta, dice Godard, e ne ha ben donde, poiché lui è il primo a farne le spese. Cos’altro dire quando tutto sembra già stato detto? Cosa mostrare quando oramai pare si sia visto ogni cosa o per lo meno ogni tipo di cosa? Ne Le livre d’image l’ex-pupillo della Nouvelle Vague reitera il suo rifiuto verso un cinema d’Arte plastica, più o meno in modo analogo a quanto si è assistito il secolo scorso nella Pittura e nella Scultura. Godard va oltre la presunta dicotomia tra cinema di narrazione e cinema emotivo, qualora tali categorie fossero peraltro corrette, andando dritto al sodo con un cinema, il suo, che è costellato di concetti.

Non semplici enunciazioni, teoremi illustrati in maniera più o meno comprensibile; quando il linguaggio tace è l’immagine a dover parlare (Godard, o qualcuno tra i suoi riferimenti, aggiungerebbe «anziché farsi parlare»). Ne è ossessionato, tanto che la deforma, la stropiccia, la restringe, la ingrandisce etc. Al fondo vi è però qualcosa che va oltre l’amore o la passione, perché quello dell’immagine è proprio un problema che non dà pace, un teorema su cui sbattere la testa finché non se ne viene a capo anche se venirne a capo fosse una battaglia persa in partenza. In questo suo ultimo saggio visivo Godard evoca il mondo arabo, che rispetto ad una non secondaria componente ha degli elementi in comune con il seppur lontano Occidente, ossia la divinizzazione del testo. Tra le righe, ma forse nemmeno tanto, il suggerimento è che tale processo abbia comportato l’imbarbarimento anziché favorire una non meglio precisata civilizzazione.

«Perché sognare di essere Re quando si può sognare di essere Faust? Nessuno sogna più di essere Faust». Ci sono frasi che non tollerano di essere illustrate, aperte e sviscerate, bensì vanno lasciate così per come sono, come le fiabe, aspettando magari che il tempo le maturi. E così in fondo è per tutte le suggestioni che si trovano in quest’ultimo lavoro del regista francese, che invita a produrre per esistere, non di certo però secondo logiche economiche; quando viene espresso questo concetto, in foto appare Celine, ed allora la prima domanda che viene in mente è che cosa ne sarebbe stata di tutta quella rabbia se lo scrittore non l’avesse impalata su dei fogli di carta. Niente, probabilmente non sarebbe successo niente, è questo è il peggiore dei crimini.

Ci sono svariati equivoci rispetto ad un lavoro come questo per cui è doveroso almeno un tentativo di sgomberare il campo. C’è chi in certi casi se ne esce sempre con lo solito, sterile quesito, peraltro peloso: siamo sicuri che se non fosse di Godard ‘sto film sarebbe stato accettato in Concorso? No, siamo sicuri del contrario. Non intendo qui approntare un discorso su autorialità, autori e affini, ammesso che ne fossi in grado, ma chi si pone certi problemi da così tanto tempo ed in maniera, piaccia o meno, così penetrante, con questa foga, con il fuoco dentro insomma, ebbene, a questa persona va certamente riconosciuto maggior credito rispetto allo studente di una scuola di cinema a caso che si diletta con iMovie o Final Cut. Potremmo stare a discutere per ore sull’opportunità o meno di creare lavori alla portata di pochi, forse addirittura di nessuno, senza però arrivare da nessuna parte. Più utile mi sembra invece chiarire che certi discorsi vanno fatti ed è meglio per tutti se a portarli avanti sia gente che ha gli strumenti per farli, ovviamente intellettuali.

Si tende a scorgere in questo Godard una sorta di assassino dell’immagine, un sobillatore contro la chiarezza, l’ordine costituito rappresentato dalla forma cinema tradizionale, quella con cui pressoché tutti siamo cresciuti e che perciò tutti conoscono. Quel che sfugge è che Godard non inventa nulla, tutt’al più rielabora post hoc un omicidio già avvenuto, per poi riprenderlo e sottoporci la sua cronaca. Quando perciò, per torna al suo intervento quasi sempre invasivo rispetto ad immagini che non sono “sue”, bensì di repertorio, ecco, quando le modifica fino a snaturarle non è mica stato lui il primo a farlo: prima di lui sono stati i nostri dispositivi, l’incuranza di un’emittente, i danni arrecati a un supporto, i limiti stessi del supporto e chi più ne ha più ne metta a trasformare una determinata immagine in qualcosa che il suo autore non aveva minimamente contemplato e sulla cui mutazione non ha alcun potere.

«Bisogna trasformare la nostra apocalisse in un’armata», dice Malraux, e ripete Godard. Altro aforisma in relazione al quale non si deve avere la premura di interpretare, contestualizzarlo, ma proprio perché l’operazione è diversa, quelli offerti sono spunti, riflessioni, di certo pertinenti, ma che non aspirano a farsi struttura, testo per l’appunto. Carmelo Bene un giorno amava e quello dopo odiava Godard, di certo era forse l’unico cineasta che considerava; ebbene, in comune con quest’ultimo Bene, mi pare, aveva proprio tale riluttanza per una forma così netta, limitante, che peraltro puzzava pure d’istituzione; no, un’opera dev’essere viva, pulsante, e questo, diceva sempre Bene, e ripete Godard, al cinema non è semplicemente possibile. Il discorso sull’immagine, che lo si faccia attraverso il montaggio oppure per altre vie, è sempre un discorso su qualcosa che è già avvenuto, si è già consumato, perciò è praticamente morto. L’immediatezza evocata da tale precisazione è dunque pressoché impossibile conseguirla, ma se al cinema qualcuno ha tentato di realizzare una cosa del genere, avvicinandosi più di tutti, beh, quello è proprio Jean-Luc Godard. But the word will never be the language.

[rating title=”Voto di Antonio” value=”8.5″ layout=”left”]

Le livre d’image (Francia, 2018) di Jean-Luc Godard. In concorso.

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