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Searching, recensione: un thriller attraverso il linguaggio dei nuovi media

Ricostruire la scomparsa di una ragazza mediante il ricorso a piattaforme social, videochiamate e documenti sparsi nella memoria di un computer. Searching alza l’asticella di un possibile genere, facendo della quotidianità racconto

pubblicato 19 Ottobre 2018 aggiornato 27 Agosto 2020 15:41

David, Pamela e la figlia Margot sono una famiglia del proprio tempo. Da quando la piccola Margot è nata, o giù di lì, David tiene traccia di tanti ricordi, catalogati sul suo PC prima e su un Mac poi: video, appuntamenti, eventi, foto e via discorrendo. Meticolosamente raggruppati in cartelle dalle quali può attingere in qualunque momento, rievocando momenti che forse, diversamente, andrebbero dimenticati. Margot cresce, mentre Pamela si ammala, finché padre e figlia non devono dire addio alla giovane donna, venuta meno prematuramente per via di un male incurabile. Un preambolo che in parte ha una funzione narrativa di cui chiaramente si coglie il peso verso la fine, mentre diventa un ottimo escamotage per mostrarci come funziona Searching e perché.

Aneesh Chaganty, il giovane regista da cui è nata l’idea – che Timur Bekmambetov non si è fatto sfuggire, lui che all’ultima Berlinale ha portato un progetto simile, ossia Profile – è uno di certo non ostile alla tecnologia. Qualche anno fa s’industriò a promuovere Google Glass, girando un corto intitolato Seeds: il risultato fu che il video diventò virale e Google si accaparrò la competenza del ragazzo. Un dettaglio non poi così marginale se si pensa a dove è approdato con questo suo primo lungometraggio, lavoro totalmente incentrato su tale aspetto della nostra quotidianità, che riguarda pressoché tutti. Un thriller edificato attraverso un nuovo linguaggio (nuovo al cinema), che perciò usa una nuova lingua per tradurre codici che stanno in giro da ben più tempo rispetto ai dispositivi di cui ci si serve per raccontare questa storia. Una storia che noi viviamo solo attraverso quanto è possibile vedere attraverso il pannello di un computer o di uno smartphone, siano esse videochiamate, vlog, navigazione tra caselle di posta elettronica, siti o registrazioni di altro tipo.

In fondo l’attrattiva di Searching sta lì, ossia nell’uso sapiente, o forse sarebbe più corretto dire coinvolgente, che fa di alcuni mezzi con cui buona parte di noi ha confidenza da anni, chi più chi meno, cogliendone il potenziale per un racconto. Quale? Ad un certo punto, Margot è oramai all’università, quest’ultima non risponde più ai messaggi e alle telefonate di David; eppure fino alla sera prima sembrava tutto a posto, se non fosse per due telefonate ricevute dalla figlia di prima mattina, senza risposta. Cos’è accaduto? David si rivolge alle autorità ma questa improvvisa scomparsa non gli dà pace, così decide di investigare a sua volta, cercando di ricostruire i movimenti di Margot, dunque, inevitabilmente, la sua vita, quella che ha tenuta nascosta al padre.

In Searching non c’è nulla o quasi di straordinario nel senso stretto del termine; anzi, la sua forza sta per certi versi proprio nell’ordinarietà di una vicenda che, al netto di qualche piccola forzatura, è ampiamente verosimile. Proprio per questo, al di là delle grafiche riprodotte con uno scrupolo pressoché maniacale (e interamente tradotte), social particolari, app e quant’altro, anche un pubblico meno avvezzo a quanto offre la contemporaneità così connessa trova di che essere intrattenuta. Si segue infatti con relativo trasporto, o quantomeno interesse, le sorti di questa ragazza, la cui ricerca svela poco alla volta piccoli frammenti, in questo Chaganty dimostrandosi alquanto abile, proprio in virtù di come va distribuendo le informazioni.

Ponendo per lo più dei quesiti ben più complessi rispetto a quanto Searching ci dice in superficie, partendo dalla semplice constatazione che un padre meno smanettone, per così dire, non solo non si sarebbe mai cimentato in un’impresa simile, ma anche volendo non avrebbe potuto. C’è un passaggio, quello del recupero di varie password, che è una sorta di spirale futuristica che però di futuristico non ha nulla, visto che certe procedure ci tediano o ci aiutano (tediandoci) da anni: lì hai modo di apprendere quanto una meccanica così apparentemente banale finisca col celare del potenziale in termini di scrittura, mentre David passa in rassegna nickname che in fondo segnano dei periodi precisi della vita di Margot.

Questa trasversalità, questo suo offrirsi a più tipologie di spettatori, avendone in qualche modo rispetto, pur senza salti mortali, non fa che impreziosire Searching, in vista del cui lavoro non vi è nulla d’inventato, bensì la risistemazione di una serie di attività talmente diffuse e ripetute da risultare di per sé banali. E tali sono, verrebbe da dire, semplicemente finché non ci rendiamo conto che nell’ambito di queste dinamiche si svolgono le nostre vite d’oggigiorno; noi che apprendiamo tutto o quasi dalla rete, che seguiamo live gli avvenimenti più disparati, o attraverso gli hashtag di Twitter oppure limitandoci a scorrere i messaggi che spesso si accumulano copiosi nelle non poche chat comuni di Whatsapp, alle quali talvolta prendiamo parte senza nemmeno sapere perché.

Searching in tal senso non mostra intenti luddisti, né si risolve in un’apologia serrata delle nuove tecnologie. A chi infatti faccia notare che senza i vari indizi disseminati inconsapevolmente da Margot per la rete non ci sarebbe stato modo di “risolvere il caso”, si potrebbe opporre un’altra verità, che però non esclude quella precedente, ossia che senza la rete questa storia non sarebbe nemmeno nata (capirete alla fine del film il perché). Cercando di superare il classico, inflazionato, per certi versi stupido «dipende dall’uso che se ne fa», bisogna riconoscere l’inutilità di collocare uno strumento da una parte o dall’altra senza partire dalla casistica, cioè dal caso concreto; una volta fatto, però, nemmeno s’ha da farsene ingabbiare.

Searching velatamente ci dice questo ed altro, speculando su un linguaggio per forza di cose giovane, perciò acerbo ancorché oltremodo diffuso nella quotidianità, che probabilmente ha addirittura le carte in regola per farsi appunto genere. Qualunque cosa sia, Chaganty l’ha spinta fino a territorio sin qui inesplorato, immergendo la realtà dei meccanismi nella finzione del racconto, con competenza, attenzione ai dettagli e il già citato rispetto per un pubblico che da un film vuole anzitutto essere tenuto incollato. Non il primo in assoluto (viene da pensare al ben meno ambizioso Unfriended, in confronto una sorta di giochino adolescenziale a tema horror), bensì il primo a dare dei contorni spessi ad un prodotto che viene fuori proprio quando pare ci si stia davvero stancando di tutte quelle logiche in cui siamo incastrati, che hanno a che vedere con la tecnologia, ma alle quali ci siamo dati volentieri. È ora che al cinema venga stimolata una sorta di riflessione.

[rating title=”Voto di Antonio” value=”7″ layout=”left”]
[rating title=”Voto di Federico” value=”7.5″ layout=”left”]

Searching (USA, 2018) di Aneesh Chaganty. Con John Cho, Debra Messing, Joseph Lee, Michelle La, Sara Sohn, Roy Abramsohn, Brad Abrell e Thomas Barbusca. Nelle nostre sale da giovedì 18 ottobre 2018.