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Hammamet, recensione: l’esilio di Craxi visto da Bettino

Senza ricostruzioni aggiunte, l’impressionante prova di Favino è tutto ciò di cui Amelio ha bisogno per soffermarsi sull’esilio tunisino di Bettino Craxi

pubblicato 8 Gennaio 2020 aggiornato 29 Luglio 2020 14:35

In TV viene trasmesso un intervento di Silvio Berlusconi, intervistato da Bruno Vespa in merito alla questione dei Balcani; oggetto del discorso è come l’Italia debba comportarsi rispetto a Milosevic. Bettino (Pierfrancesco Favino) è lì sul divano, in penombra, che si dimena come se avesse l’orticaria, come sul punto di venire lanciato sullo spazio: data anche l’età, verrebbe da pensare ad uno di quei mali ahimè tipici, tipo il Parkinson. Niente di tutto questo… quel male si chiama Potere; o per meglio dire, la sua assenza.

Quante cose avrebbe voluto fare Bettino. Epperò, quante ne aveva già fatte. Hammamet si smarca da due tra le possibili letture: una eulogica, l’altra apologetica. Non c’è denuncia, né celebrazione invece. C’è la condizione di un uomo di potere ridotto all’impotenza, privato di tutto ciò che ha dato un senso alla propria esistenza, con in più quel marchio d’infamia che pesa come un macigno. La domanda allora è: chi l’ha ridotto così? La magistratura, può darsi. Ma questa è una risposta che potrebbero dare degli storici, forse qualche giornalista; ad Amelio interessa qualcos’altro, qualcosa di cui le due categorie appena menzionate quasi sempre dimenticano, un po’ per convenienza, un po’ per deformazione professionale.

Sembra banale scriverlo, ma è così, Bettino Craxi era un uomo. Sia chiaro: se non lo fa il film, non vedo perché dovremmo addossarci noi l’onere di evidenziare quanto di giusto e/o di sbagliato vi sia stato nella parabola del leader del Partito Socialista Italiano. Tanto più che nel film viene rievocato poco o nulla, bagliori, anche se indicativi, come se ci venisse suggerito qualcosa (la ricostruzione a mo’ di gioco della crisi di Sigonella, per esempio). Ma il centro resta sempre lo stesso, ovvero la prigionia di questo personaggio, a prescindere da come ci sia finito.

È un po’ il pregio ma anche il difetto di Hammamet, che procede per suggestioni, riferimenti appunto, ma che, soprattutto, appare un dispositivo congegnato per fare da sfondo all’elemento principe, il suo piatto forte: la prova di Favino. Favino il film se lo mangia, la sua performance capace di fagocitare ogni cosa; accanto al suo Craxi tutto quasi scompare, si dissolve, o perché appunto ingoiato, o perché oscurato talvolta anche dalla mera presenza scenica. L’attore romano qui non si limita ad interpretare qualcuno, bensì ad impersonarlo, che è diverso, e, così facendo, riportandolo in vita.

Ci sono momenti in cui si rischia di dimenticarsi del film; ed è come se si stesse semplicemente guardando uno dei tanti video caricati su YouTube in cui appare il vero Bettino Craxi. Non fosse per qualche comprensibile imperfezione del volto (il trucco arriva sempre fino a un certo punto), non si avrebbero dubbi: è lui. Un risultato che fa impressione, persino in un’epoca che si appresta a risentire in maniera vedremo fino a che punto profonda di pratiche come il deepfake, qui proposto senza l’ausilio della tecnologia. A differenza di quanto fa il Servillo diretto da Sorrentino con gli Andreotti o i Berlusconi, qui tuttavia non c’è spazio per esasperazioni o caricature, anzi, perché il senso non passa da un’interpretazione aggiunta; Amelio non vuole offrire una sua visione di Craxi, bensì cercare, pur con tutti i limiti del caso, di restituire la statura di un uomo che è stato un politico e che ha attraversato, per certi versi da protagonista, una delle pagine più cupe della storia repubblicana del nostro Paese.

Il dato però, come già accennato, non è politico ma umano. A certe condizioni l’unica era perciò assecondare il trasformismo di Favino, ed Amelio, intelligentemente, lo sa. Croce e delizia, perché il prezzo da pagare è una minore profondità, la necessità di dover integrare alle immagini notizie, nozioni o addirittura esperienze relative a un periodo che chissà ancora per quanto seguiterà a tormentarci. Là dove però Hammamet deve trasmettere l’isolamento, quello vero, forzato, duro, dando la dimensione di cosa possa significare voler dire tante cose ma non riuscire a dirne alcuna, non tanto perché qualcuno lo impedisca, beh, lì il lavoro di Amelio attecchisce.

Non era un santo ma nemmeno un criminale, questo è il giudizio di massima, generico ancorché lucido, su uno dei maggiori politici italiani del Dopoguerra. Il suo ispirarsi al Risorgimento, ai moti che animarono l’ideale di un’Italia unita, fiera ma libera, ritornano nelle note di un celebre motivetto (Garibaldi fu ferito) canticchiato in tono fanciullesco sotto il sole tunisino. Così come suggerito dalla prima sequenza del film, su cui si torna in prossimità dell’epilogo, ciò che accomuna le vicende dei cosiddetti «grandi uomini», così come di quelli comuni, sta nella lezione di Ingmar Bergman, per cui tutto si riduce a questo continuo, sofferente ritorno all’infanzia, quando ancora è tutto da definire ed è il mondo a dover avere paura di noi, non il contrario.

[rating title=”Voto di Antonio” value=”7″ layout=”left”]

Hammamet (Italia, 2020) di Gianni Amelio. Con Pierfrancesco Favino, Livia Rossi, Luca Filippi, Silvia Cohen, Alberto Paradossi, Roberto De Francesco, Omero Antonutti, Giuseppe Cederna, Renato Carpentieri e Claudia Gerini. Nelle nostre sale da giovedì 9 gennaio 2020.