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Il re di Staten Island, recensione, il caloroso coming-of-age di Judd Apatow

C’è durezza ma anche un giusto grado di divertimento nell’ultima commedia di Judd Apatow, co-scritta e interpretata da Pete Davidson

pubblicato 30 Giugno 2020 aggiornato 29 Luglio 2020 10:13

T’accosti a una commedia di Judd Apatow ed almeno una cosa puoi immaginarla preventivamente: il protagonista tenderà a rubare la scena. Pregiudizio, se così vogliamo definirlo, che risulta corrispondente alla realtà, perché di fatto attorno al personaggio di Pete Davidson, che Il re di Staten Island l’ha pure co-scritto, orbita ogni cosa. Il suo Scott è il centro gravitazionale di questa storia tratta almeno in parte da vicende reali che riguardano Davidson, estensione per certi versi del suo personaggio al Saturday Night Live.

Scott Carlin (Davidson) è poco più che ventenne, ha perso il padre pompiere quando ne aveva appena cinque e passa le giornate stando con gli amici, deambulando per casa e fumando erba. Sballato ma non per questo meno brillante, anzi: battuta pronta, discreta consapevolezza della propria situazione, disamore profondo per la vita e tutto ciò che comporta. La madre, Margie (Marisa Tomei), s’è oramai abituata, figurarsi, ma ora che la sorella Kelsey (Maude Apatow) è in procinto di lasciare casa per dirigersi al college tutto diventa più complicato.

C’è un momento in cui l’amica/amante di Scott, Claire (Bel Powley), spara in faccia al suo interlocutore una particolare considerazione, secondo cui stargli attorno fa uscire di testa. Oddio, Scott non sembra avere tutto questo ascendente su chi frequenta, nuove o vecchie conoscenze che siano; nondimeno resta un’affermazione forte, specie perché, viene da pensare, in realtà l’unica a non reggere il peso di questo malessere sia lei. Poi però uno ci ragiona un po’ meglio e scopre una verità in fin dei conti molto base: tutti coloro che amano davvero Scott rischiano d’impazzire. Come mai?

Suppongo che uno dei leitmotiv più interessanti de Il re di Staten Island si celi proprio dietro questa dinamica distruttiva a più livelli: come rapportarsi al disfacimento della persona amata. E sono le “donne di Scott” a rivelarsi fondamentali al fine di cogliere questa chiave di lettura: la madre, la sorella e l’amica di una vita soffrono maledettamente a stargli accanto, non tanto perché non lo sopportino ma perché vorrebbero fare qualcosa per lui, senza però riuscirci.

Come in ogni racconto di formazione almeno accettabile, la parabola di Scott lo fa passare perciò dal venire sottoposto ad una o più sfide che gli consentano di mettersi in discussione, che lo forzino a compiere quel passo senza il quale il venire fuori da una data condizione sarebbe impensabile. Non entriamo troppo nel merito: diciamo che a Scott tocca capire due/tre cose rispetto a quanto l’esistenza sia difficile per tutti e a prescindere, dopodiché inserire tale verità nella sua storia personale, elaborando con un po’ più di serenità quel passato che lo opprime. Niente psicologismi, sia chiaro, ed è su questo punto, se vogliamo, che Apatow ha dovuto lavorare non poco.

Come filtrare infatti la vicenda di un giovane che si sta perdendo, senza dare attenuanti inutili ma al contempo dribblando qualsivoglia moralismo? Non solo. Perché in un contesto del genere, così greve, mediare con un registro da commedia comporta un notevole incremento del coefficiente di difficoltà. E diciamo che quest’opera di bilanciamento, lo stemperare i toni senza per questo forzare troppo la mano, in larga parte può dirsi riuscita. Non manca infatti ne Il re di Staten Island quel tepore che riscalda, senza per questo voler tacere in merito alla gravità di certe situazioni.

La maggior parte dei dialoghi sono lì a chiarire il punto appena descritto, cioè a dare ragione di una tenuta generale che ha del verosimile, che fa da sfondo a uno scenario certo ritoccato, meno sporco di quanto ce lo si può immaginare, ma d’altra parte Apatow è fra i pochi (se non l’unico) tra quelli a cui Hollywood volentieri affida progetti del genere lasciandolo fare, ad avere un minimo slancio autoriale, un’idea tutto sommato precisa. Perciò almeno una leggera ripulita ce la si deve aspettare, ed anche in questo ci si muove bene, perché alla fine temi e sentimenti non ne escono così ridimensionati.

Oltre ad essere un discreto ritratto inerente al periodo, per forza di cose parziale eppure centrato, Il re di Staten Island, per tornare a quanto evidenziato in apertura, si avvale di ottimi comprimari. Sì, Scott, che ci si affezioni o lo si trovi intollerabile, tende naturalmente a scavalcare chiunque; eppure nessuno soccombe, anzi, tutti gli tengono testa e dalle svariate scene emerge quasi sempre un’alchimia corroborante, come se quei personaggi, per quanto probabilmente un po’ costretti all’interno di una narrazione che si muove su binari palesemente prestabiliti, ci dessero comunque modo di non farci troppo caso. Immagino sia questo il calore che di tanto in tanto s’avverte, mentre Scott cammina per le vie di Staten Island stralunato, in cerca di qualcosa o più semplicemente di qualcuno.

Il re di Staten Island (The King of Staten Island, USA, 2020) di Judd Apatow. Con Pete Davidson, Marisa Tomei, Bel Powley, Steve Buscemi, Bill Burr, Pamela Adlon, Maude Apatow, Domenick Lombardozzi, Kevin Corrigan, Moises Arias e Machine Gun Kelly.