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Cannes 2021, France, recensione del film di Bruno Dumont

Lo spettacolo in luogo dell’informazione, Bruno Dumont con France demolisce vecchie e nuovi media ma in maniera tutta sua, più impenetrabile che mai

16 Luglio 2021 18:53

France (Léa Seydoux) è seduta in prima fila nel corso di una conferenza stampa tenuta da Macron; e c’è tutto il Dumont post-P’tit Quinquin, la cui comicità surreale passa da una serie di boccacce e brutti gesti. France è una delle giornaliste mainstream più affermate di Francia, amata, sostenuta da un’audience che se la coccola come fosse una diva di Hollywood. Un giorno, mentre accompagna il figlio a scuola, si distrae un attimo ed urta uno scooter dalla parte posteriore; Baptiste, il ragazzo che guida, si rompe una gamba e questo evento suscita nella donna uno strano senso di colpa. Da quel momento France non è più la stessa.

Uno dei film più ermetici di Bruno Dumont, che di certo non è autore facile, ma che stavolta opta proprio per il sentiero più scosceso. Il bello è che, paradossalmente, proprio l’innesto qua e là di elementi che mutuano dal Teatro dell’Assurdo, finisce col rinforzare quel realismo tutto particolare al quale da sempre anela il regista francese. L’indecifrabilità di quanto accade alla protagonista cos’è, infatti, se non la medesima che riscontriamo nella quotidianità, dimensione entro la quale sono più le cose che ci sfuggono che quelle che possiamo dire di comprendere?

France prende insolitamente a cuore la situazione di Baptiste: lo va a trovare all’ospedale, poi a casa, ed infine lo risarcisce sganciandogli una cosa come quarantamila euro circa in totale. Contestualmente, la giornalista comincia a non poterne più della rarefazione, se non proprio della menzogna, del contesto in cui opera. In uno dei suoi reportage si vede come lavora: in Medioriente per intervistare il capo di uno gruppo che collabora col governo francese per combattere l’ISIS, si ha modo di assistere alla leggerezza con cui di fatto mette in scena la sua intervista, tra pose ridicole ed uscite avvilenti.

Esatto, il dito è puntato sulla mistificazione del cosiddetto quinto potere, ossia la comunicazione. C’è un breve siparietto tra France e l’esponente verosimilmente di un partito di Destra, dopo che quest’ultimo è stato appena intervenuto come ospite in diretta. A telecamere spente, lungo i corridoi dell’emittente televisiva, il politico fa notare che non c’è differenza tra le loro due categorie: chi opera in Politica lo fa però per i voti, loro per lo share, definendola pure utile. Apriti cielo. France è già esposta, i meccanismi di questa realtà così codificata si fanno sempre più asfissianti ed allora decide di prendersi una pausa. Anzi, inizialmente si tratta proprio di lasciare tutto.

C’è poi una traccia, che nei film di Dumont non può mancare, quella metafisica, che stavolta viene solo suggerita, fermandosi un attimo prima di percorrerla quella strada. Eppure in questa fattispecie è possibile scorgere la radice di questi moti interiori di France, che dopo anni di finzione e apatia vuole sperimentare qualcosa di profondamente vero, e vuole farlo in maniera radicale. Tuttavia qui Dumont è spietato: può infatti riuscire a raccapezzarsi una persona che per così tanto tempo ha bazzicato solo la finzione, incurante di ciò che è autentico?

È pure tenera France, che a un certo punto non fa altro che piangere, inquadrata con quelle espressioni quasi estatiche (ancora una volta l’iconografia cristiana). E si sarebbe davvero tentati di lasciarsi trasportare da questa sua goffa ricerca, se non fosse che l’asciuttezza di Dumont preclude almeno in parte la possibilità di entrare a pieno in questo processo. Per un attimo pare che si stia tratteggiando la storia di una santa contemporanea, quella che lascia tutto per amore di Verità, schiacciata dal mondo, che di rimando viene abbandonato. Non è così. Nel senso, i presupposti ci sono, finché lo sviluppo non prende una strana piega ed il discorso si fa ben più complicato di così. Eppure si guardi a come evoca la questione dei media: quando France e la sua collaboratrice Lou (Blanche Gardin) vengono colte in flagrante per via di un microfono che si accende accidentalmente, i social impazziscono e cominciano ad annichilire la presentatrice. Al che Lou, con nonchalance, acquieta France dicendo più o meno che il fatto che accada la cosa peggiore rappresenta la situazione migliore, posto peraltro che in ventiquattr’ore si dimentica tutto. Funziona così. Beffardo qui Dumont, che appioppa una certa consapevolezza di come vada realmente il mondo a Lou, una che è totalmente integrata, a differenza dell’altra.

Alcune delle scelte di Dumont provocano un senso di spaesamento che in fin dei conti pare assolutamente voluto, anche perché certi frangenti risultano così stranianti che non posso essere espressione di un effetto involontario (l’incidente che vede quest’auto volare da una scarpata, scena girata con una pesantezza quasi ironica). Uno strano oggetto France, che non è un dramma ma non è nemmeno una commedia, nera o meno che sia. Buona parte delle categorie a cui siamo soliti ricorrere si rivelano senz’altro insufficienti a descriverlo, e l’impressione è che in questo Dumont tenda ad aver avuto ragione.

Se infatti poco sopra ho fatto allusione a una sorta di realismo, non l’ho fatto quanto alle intenzioni bensì al risultato, poiché non tanto dal realistico quanto addirittura dal verosimile, France esce a più riprese, sbattendo la porta per giunta. Se fotografa qualcosa Dumont, non è la contingenza, ma nemmeno quanto monta internamente al personaggio della Seydoux. No, il tentativo sembra semmai essere quello di cogliere l’essenziale, ossia il vero, di un intero aspetto della realtà, la qual cosa non può certo consistere nella collezione di fatti e/o pronunciamenti – per dire, siamo bravi tutti ad affermare che il giornalismo spesso e volentieri, se non mente, almeno “aggiusta” quanto riporta, quali che siano le intenzioni. Senonché il punto non è denunciare una pratica, quanto cercare di sondare il perché le persone siano così inclini a darsi a certe cose.

Fama, denaro, potere? Certo, ma questa è la classica triade, valida sempre, che attraversa i secoli. Altro è provare a farne una radiografia, bloccare dei punti, come dei fermo immagine, che ci dicano qualcosa di più, qualcosa che non sappiamo. Una missione impari, forse impossibile, ma in cui Dumont decide d’imbarcarsi comunque. E forse ha un suo perché insistere su questi dietro le quinte di reportage da imbonitori, soffermandocisi a lungo ed in più frangenti, in modo quasi ridondante, dato che già dopo la prima volta il concetto è passato. Eppure alla fine è sempre più la parte che sfugge che quella che si riesce a fare propria.

Ok, effettivamente France è attraversato da una strana tensione, che non emerge mai del tutto ma sulla cui presenza non si hanno dubbi. Quando alla fine, davanti alla lapide di una bambina, il cameraman di France, che in quel momento non sta riprendendo, imbraccia la macchina da presa come fosse un fucile, ci si rende conto che la verve dell’ultimo Dumont non è davvero venuta meno, solo che ha un suo modo di essere caustico. Insomma, in pratica Dumont ci chiede un atto di fede, di qualità diversa rispetto a quello proposto dalla religione, anche perché in questo caso ci si chiede di credere nella capacità di ciascuno di noi nel sapersi lasciar destabilizzare, e poi trarne il meglio.

France (Francia/Germania/Italia/Belgio, 2021) di Bruno Dumont. Con Léa Seydoux, Juliane Köhler, Benjamin Biolay, Blanche Gardin, Emanuele Arioli, Marco Bettini e Gaëtan Amiel. In Concorso.