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Hayao Miyazaki: cento di questi mondi!

Esattamente 72 anni fa nasceva Hayao Miyazaki. Cineblog rende omaggio al maestro dell’animazione giapponese con un breve speciale

pubblicato 5 Gennaio 2013 aggiornato 31 Luglio 2020 18:54

Partiamo da qui, ossia da un augurio che rivolgiamo non solo al diretto interessato, ma anche a noi. Perché oggi, 5 Gennaio 2013, Hayao Miyazaki compie 72 anni. Circa trenta di questi, trascorsi a dipingere mondi che sono storie di per sé stessi. A farci viaggiare in epoche, realtà e visioni tra le più disparate. Una magia senza tempo che si snoda attraverso una ricca, corposa ma soprattutto eterogenea filmografia.

Perché in ogni film diretto da Miyazaki c’è sempre stato il piccolo Hayao, quello che ha vissuto certe esperienze prima ancora che fossero impresse su un foglio di carta o su una pellicola. Tale coinvolgimento, così pieno e totalizzante, rende pressoché ogni film del cineasta giapponese un frammento di vita vissuta e al tempo stesso immaginata.

Lui che al potere dell’immaginazione ha sempre strenuamente creduto, non come mera alienazione bensì come dimensione complementare ed utile ad una realtà che da sola non basta, da cui di tanto in tanto ha preferito prendersi una pausa per amore di renderla sostenibile. A riguardo, piuttosto eloquenti ci sembrano le parole che ebbe modo di pronunciare in un’intervista risalente al 2002, quando Hayao Miyazaki fu consacrato internazionalmente a seguito dell’Oscar per La città incantata (Sen to Chihiro no kamikakushi).

Credo che la fantasia nel senso di immaginazione sia davvero importante. Non dovremmo attaccarci troppo alla realtà di tutti i giorni ma trovare spazio per la realtà del cuore, della mente e dell’immaginazione. Queste cose possono aiutarci nella vita, anche se dobbiamo essere cauti nell’utilizzo della parola “fantasia”. Oggigiorno in Giappone questo termine viene applicato a tutto, dagli show televisivi ai videogiochi, come realtà virtuale. Ma quest’ultima è una negazione della realtà. Abbiamo bisogno di aprirci ai poteri dell’immaginazione, che apportano un beneficio concreto alla realtà. La realtà virtuale può imprigionare le persone. Si tratta di un dilemma con il quale mi confronto strenuamente nel mio lavoro, che è in bilico tra mondi immaginari e mondi virtuali.

Lungi da noi voler integrare alle interessanti considerazioni sopra riportate frasi ad effetto o superficiali sentenze. Tuttavia ci sembra che il lavoro di Miyazaki risolva a priori tale dilemma, laddove ci concentriamo sulla sua fruizione. Il suo modo di fare animazione si pone, nei confronti dello spettatore, come la Fiaba è solita fare col lettore. Certi episodi, certe immagini, certe stravaganze, non possono essere lette attraverso alcun filtro pervicacemente razionale. Le avventure di Miyazaki, in altre parole, si vivono.

Questo per molto tempo, ed in parte ancora oggi, è l’equivoco fondamentale per cui molti fraintendono l’animazione per qualcos’altro. In un mondo sempre più in preda a quel virtuale (non fermatevi ai videogames, che in tal senso rilevano poco) che presuppone ed esige una più o meno solida speculazione intellettiva prima ancora che intellettuale, l’immaginario di certe storie e di certi contesti chiedono solo abbandono. Come con le Fiabe ci si deve semplicemente arrendere all’idea di un talpone che intende sposare una bellissima bambina (Mignolina), non ci si può sorprendere che una vecchia casa sia abitata da degli strani esseri grandi quanto una pallina da tennis (i Makkuro Kurosuke de Il mio vicino Totoro [Tonari no Totoro]).

Perché, per quanto ne sappiamo, le vicende narrate nei film di Miyazaki sono accadute eccome. Trattasi di ricordi che l’Hayao adulto rievoca attraverso gli occhi della memoria di quel bambino che le ha vissute. Ognuno dei suoi personaggi contiene e svela con discrezione una parte del suo autore, che mescola in essi e attraverso essi realtà e fantasia a tal punto da far crollare sotto i nostri piedi il pavimento delle certezze che diamo per scontate.

Il cinema di Miyazaki è un costante e reiterato simbolismo ricorrente, in movimento non solo per via del mezzo attraverso cui si sostanzia, ma perché spiritualmente legato da un filo conduttore che si dipana mediante ogni sua opera. A conti fatti è stato lui ad aver aperto le porte del mondo all’animazione giapponese, che da allora è divenuta patrimonio culturale non solo di questo Paese ma di tutti coloro che se ne sono visceralmente appassionati; suo è il primo film d’animazione ad essere presentato ad un Festival (fu Lupin III – Il castello di Cagliostro [Rupan sansei – Kariosutoro no shiro] a Cannes, nel 1980).

Miyazaki che per primo sperimentò e si fece attivo portavoce di quello che Alessandro Bencivenni brillantemente definisce «esotismo a rovescio» nel suo Hayao Miyazaki. Il dio dell’anime (Recco, 2003), per via di una lunga serie di viaggi in Europa che il regista giapponese compì già agli albori della sua sfavillante carriera. Immagazzinare, conoscere, scoprire: tre termini che in fondo sono sinonimi, e che descrivono in maniera essenziale ma precisa i presupposti del lavoro di Miyazaki, il quale ha potuto servirsi del mondo senza vincolarsi a regionalismi di sorta.

Questo, unito alla sua fervida ed instancabile immaginazione, hanno da sempre conferito al suo cinema quel taglio universale che lo hanno reso famoso in ogni dove. Nelle sue storie, nei suoi personaggi, ma soprattutto nei suoi mondi, non c’è nulla di strettamente territoriale, nemmeno a livello culturale volendo. L’impronta nipponica è evidente pressoché ovunque, specie nei tratti. Ma determinanti, in funzione del risultato complessivo, sono stati proprio quei suoi viaggi, non solo sotto forma di gite fuori porta. Gli autori a cui Miyazaki si è ispirato hanno lasciato un segno indelebile sulla sua poetica, da Philippa Pearce a Rosemary Sutcliff, passando per Antoine de Saint-Exupéry. Tutti scrittori che si sono spesi nel tentativo di rivolgersi ai più piccoli, a prescindere dalla loro età.

Tra le svariate tematiche ricorrenti nella filmografia di Miyazaki, però, concludiamo questo nostro breve ma doveroso omaggio con due dei leitmotiv più rilevanti. Il primo attiene alla forma d’espressione in sé attraverso cui il regista ha sempre veicolato le proprie visioni (l’animazione, quindi), ossia l’ossessione per i dettagli. Essenziali per chi come lui non si è mai potuto limitare a fotografare i propri fantasmi, buoni o cattivi che fossero, bensì crearli letteralmente da zero. Non a caso sono note le condizioni di lavoro alle quali sono stati sottoposti i disegnatori dello Studio Ghibli, che videro migliorare la propria situazione solo allorquando i loro film cominciarono ad incassare seriamente. Lo stesso Miyazaki, a suo tempo, dovette rendersi indipendente proprio perché il livello qualitativo al quale aspirava non gli permetteva di restare confinato alle logiche degli altri studi. Ecco perché era lui il primo a mantenere indefessamente un ritmo forsennato.

Seconda componente, la cui menzione si impone sola, è la nostalgia. Quale che siano il tema trattato, la trama, i personaggi e quant’altro, in ogni suo film è palpabile un certo alone nostalgico. Tono che nessuno è forse riuscito ad infondere nei propri lavori come c’è riuscito Miyazaki, ed attorno al quale, essenzialmente, ruota tutto. Impossibile, diversamente, calarsi in quegli scenari così a limite, privi come sono di coordinate nette ed inequivocabili. Eppure, dopo un meraviglioso spaesamento iniziale, bastano poche sequenze per sentire quel determinato mondo, se non nostro, quantomeno familiare. Una familiarità che ci ha scosso per più di trent’anni e speriamo continui a pizzicare i nostri sogni e la nostra fantasia. Noi piccoli che ci diciamo grandi; o grandi che non sanno di essere piccoli.

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