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Anni felici: Recensione in Anteprima del film di Daniele Luchetti

A tre anni da La nostra vita, Daniele Luchetti torna col suo film più personale. Anni felici, non una vera e propria autobiografia, materializza in parte i rischi di opere di questo genere

pubblicato 27 Settembre 2013 aggiornato 24 Aprile 2024 10:54

Erano davvero anni felici, quelli? In questo suo ultimo film Luchetti mescola realtà e fantasia, filtrando attraverso la lente della finzione parte della «verità» inerente alla sua famiglia. Quella con le virgolette, per forza. Perché lo stesso regista è il primo a prendere le distanze da un’interpretazione univoca e netta di quell’infanzia di cui, in fin dei conti, serba un bel ricordo.

È chiaro in premessa, dunque, che gli anni di cui al titolo non rappresentino un arco temporale specifico quanto un periodo di vita, un frammento di esistenza, rievocato mediante una prospettiva diversa, che è poi l’unica che sembra essere sempre mancata. Siamo nel 1974, in una famiglia come tante ce ne saranno state in quell’epoca di transizione. Guido (Kim Rossi Stuart), il padre, è un’aspirante artista d’avanguardia in rotta con tutto ciò che emana il vago sentore di classicismo, compresa, ironicamente, la sua famiglia. Quest’ultima, ostacolo o scusa?

Con lui una moglie che lo venera, Serena (Micaela Ramazzotti), succube, se non del proprio uomo, dell’amore che gli porta. A completare il quadro due figli, entrambi a proprio modo vivaci, uno più intelligente dell’altro (pure troppo). Centro di tutto è questa famiglia, alle prese con le proprie ossessioni, nel tentativo di conciliare ciascuno le proprie esigenze con quelle degli altri.

È un terreno impervio quello su cui Luchetti costruisce la propria opera; di mezzo tematiche su cui ci si è spesi fino alla nausea e che, pur lasciate sullo sfondo, finiscono in qualche modo per rubare a tratti la scena. Perché in fondo Anni felici si sforza ad essere un po’ più ingenuo di quello che in realtà non sia, nel costante tentativo di mantenere quell’equilibrio precario che gli consenta di proporre efficacemente situazioni su cui certo cinema italiano si è anche troppo soffermato. Vale per gli anni della contestazione nonché quelli che ne sono immediatamente seguiti, più e più volte mostratici in diverse salse, tutte dal medesimo retrogusto.

Tuttavia qui si glissa cu certo «impegno politico», che nessuna cittadinanza ha tra queste mura; piuttosto, forse anche un po’ in maniera incidentale, si finisce col ricavare molto sommariamente quale sia stato l’impatto sui piccoli nuclei, quelli che più di ogni altro hanno risentito, per un verso o per un altro, di uno stravolgimento così netto di costumi, come le famiglie. Li chiama «spettatori muti» Luchetti, quei ragazzini ai quali non restava che assistere, in balia della propria confusione mista ad impotenza, a quelle interminabili discussioni in cui due adulti (i «loro» adulti) si bestemmiavano contro le ingiurie più impensabili. Ad un certo punto qualcosa si ruppe, le maschere caddero e l’innocenza persa (o «ritrovata», come dice esplicitamente il Luchetti voce narrante nel film) aprì un capitolo nuovo, quello dal quale non ci fu più ritorno.

Inquadrato il contesto, si capisce bene che la vera sfida fosse quella di ingaggiare i toni e le modalità giuste, adatte ad una storia che non in elementi presi a sé stante, come il contesto o gli interpreti, poteva trovare quello slancio di cui necessitava. Qui il regista romano, probabilmente mai espostosi fino a tal punto, scommette tutto, optando per un tono vagamente nostalgico, motivato alla luce del trasporto positivo dal quale viene trascinato mentre ripesca e riforma certi ricordi più o meno coerenti. Integrando a tutto ciò misure fotografiche che contribuiscono in qualche modo a collocare temporalmente le vicende (il ventaglio di pellicole utilizzate passa attraverso il Super 8, il 16 ed il 35mm).

Resta da chiedersi: basta questo? Anni felici si lascia dietro due scene forti, costruite con la professionalità di chi, come Luchetti, il cinema non lo fa certo da ieri. Il punto, che è poi anche un limite concreto, sta nel non riuscire ad infondere quell’incisività di cui a più riprese si avverte il disperato bisogno. Perché in realtà non si può proprio dire che il film non funzioni, che il regista non sia riuscito ad evitare certe derive nelle quali eppure sarebbe potuto (s)cadere benissimo; solo che nella basilare destrezza mostrata in questo gioco di pesi e misure si esaurisce la verve che, a queste condizioni, per un progetto di questo tipo non pare abbastanza. Capita pure di respirare quell’odore di vita vissuta, familiare o meno che sia, è bene dirlo, come quando la mamma intima al figlio di non toccare nulla «perché costa un sacco di soldi». Momenti rari, ma ci sono.

E dire infatti che le interpretazioni di Kim Rossi Stuart e Micaela Ramazzotti su tutti sono credibili, pressoché mai sopra le righe, specie nel caso di quest’ultima. Quel che invece lascia un po’ perplessi è una scrittura talvolta troppo didascalica, non aiutata da una messa in scena che, come in parte accennato, non si prende quasi nessun rischio. A volte basta una parola, un brevissimo passaggio per vanificare un’intera scena che fino a un dato momento procede senza particolari intoppi. Come quando, dopo la rottura, Guido e Serena si rincontrano per la prima volta nella bottega di lui: lei osserva l’ingombrante scultura e chiede a lui chi sia, al che quest’ultimo risponde «la tua mancanza». Ecco, forse in certi frangenti fidarsi un po’ di più dello spettatore, lasciando che sia lui a maturare senso, masticandolo e rimuginandoci sopra, gioverebbe non poco. È soprattutto questa incertezza, questa difficoltà nel trovare un equilibrio tra ermetismo ed eccessiva evidenza a penalizzare Anni felici.

Una mancanza di coraggio, se così si può definire, che fa il paio con la sfrontatezza di un’altra generazione, di cui in fondo lo stesso Guido è esponente: quella della provocazione, dell’arte per l’arte, senza punti di riferimento, concepita col solo intento di scandalizzare – e poco importa se gli altri, poveri loro, non capiscono. Limitatamente a questo spunto, val la pena menzionare due scene, complementari l’un l’altra, in cui lo stesso critico d’arte prima demolisce la perfomance di Guido, per poi complimentarsi di cuore per una sua successiva scultura, stavolta giudicata con favore. Qui colpisce la figura positiva del critico, che dopo essersi beccato un sonoro ceffone per una recensione negativa, incline ad un’etica impeccabile, non ha remore nell’esaltare lo stesso autore che prima aveva criticato. Tuttavia, inserito in quel contesto, a chiosa di un film che aveva già “scoperto le proprie carte”, appare non banale ma senz’altro fuori posto.

A questo punto non ci resta che rispondere alla domanda d’apertura, ossia se quelli fossero o meno anni felici. Ebbene sì, a quanto pare lo erano, o almeno è così che li ricorda il diretto interessato. Viene dunque da chiedersi, fuor di sarcasmo, se non furono proprio quegli anni a viziare l’immaginario di tanti autori, registi e sceneggiatori italiani, buoni e meno buoni, che faticano in maniera a questo punto preoccupante nel raccontarci e raccontarsi. Amare considerazioni che oramai sembrano valere per tutti, autori e mestieranti. E che dovrebbero inquietare non solo chi il cinema nel nostro Paese lo fa o quantomeno tenta di farlo, ma anche chi lo segue con passione, senza trincee e false cortesie.

Insomma, non si tratta qui di rivangare stagioni più o meno fortunate. In Anni felici si avverte una regia che esula dal compitino per casa, ponendosi su un gradino più elevato; nondimeno certe interessanti soluzioni non riescono a supplire a quella mancanza di mordente che lascia in troppi frangenti poco più che tiepidi. E pensare che le due scene fugacemente evocate poco sopra, un ragazzino (irresistibile il piccolo Niccolò Calvagna) che da solo riesce quasi sempre a scavalcare tutti gli altri e delle prove in generale più che decorose in un primo momento tendono a convincere. È il dover tenere inevitabilmente conto dell’insieme che ridimensiona un film difficile da scrivere e forse ancor più da girare. Non solo per la rischiosa vicinanza alla quale non poteva, né in fondo voleva, sottrarsi Luchetti.

Voto di Antonio: 5,5

Anni felici (Italia, 2013), di Daniele Luchetti. Con Kim Rossi Stuart, Micaela Ramazzotti, Martina Gedeck, Samuel Garofalo, Niccolò Calvagna, Benedetta Buccellato e Pia Engleberth. Nelle nostre sale dal 3 Ottobre.

Daniele Luchetti