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Courmayeur 2012: Frankenweenie – recensione del film di Tim Burton

A chiudere l’edizione 2012 del Noir in Festival c’è Tim Burton, con il suo atteso Frankenweenie. Ecco la recensione di Cineblog

pubblicato 17 Dicembre 2012 aggiornato 31 Luglio 2020 19:19

Che Frankenweenie fosse un progetto che viene da lontano era cosa nota. Strenuamente agognato da Tim Burton per anni, finalmente anche noi abbiamo avuto modo di metterci le mani sopra. Ebbene, molti di voi saranno lieti di apprendere che un Burton così non lo si vedeva da tempo, quali che siano le opinioni personali riguardo ai recenti lavori del regista.

Perché questa sua ultima fatica è un proclama appassionato a tante di quelle tematiche che stanno a cuore a Burton, da stare dentro quasi a forza in un unico lungometraggio. Frankenweenie è come una pentola pronta a scoppiare; è un bimbo che gioca coi propri pupazzi; è un adulto che non ha smesso di sognare quel bimbo.

C’è tutto Burton in Frankenweenie. A mettere il sigillo su tale affermazione sono essenzialmente i toni che lo hanno reso celebre, vero marchio di fabbrica di un autore che a questo punto della sua carriera aveva forse bisogno di tornare indietro, là dove tutto ha avuto inizio. Per riuscirci ci sono voluti due personaggi: un cagnolino ed il suo padrone. In quella che, evidentemente, è l’opera più autobiografica del bambino oramai cresciuto, nato a Burbank.

Victor è un ragazzino alquanto singolare. Quasi nulla di ciò che infiamma i propri coetanei lo appassiona, aspetto che lo costringe a ripiegare su un isolamento in cui oramai si trova a proprio agio. Non che il tempo del giovane sia così vuoto, comunque. Victor a dire il vero un amico ce l’ha, ossia il suo cane Sparky. Insieme condividono i momenti più esaltanti delle loro rispettive esistenze, avendo stretto un legame pressoché indissolubile.

È bene evidenziare come il contesto entro il quale si muove Victor, come già accennato, è visto attraverso gli occhi di un Burton che ritorna alla propria infanzia. L’intera realtà che lo circonda è distorta, stravagante. Su di essa il suo creatore riversa ciò che gli è più caro, filtrandolo mediante la lente estremamente affascinante grazie alla quale abbiamo imparato ad apprezzare quest’autore.

Lo stop-motion è solo uno dei rimandi più immediati al Burton che ci piace. Con Frankenweenie quest’ultimo si racconta e ci racconta velatamente la genesi di un qualcosa, di un amore, di una passione. Una fantasia lucida, pregna di exploit da capogiro, calata in un contesto dalle sfumature esponenzialmente dark. Scenario strambamente rassicurante lungo la prima parte del film, salvo poi ripiegare bruscamente sugli angoli bui di quell’ambiente e di quei personaggi.

Quest’ultimi, tutti riusciti. Burton si giostra con encomiabile abilità su questo campo, descrivendoci profili vivi, credibili. Sì, perché ciò che li rende verosimili non è affatto il loro essere riconducibili a qualcosa di vagamente reale; sono reali nella misura in cui chi li ha scritti li ha davvero conosciuti, si è intrattenuto in loro compagnia, in altre parole, ne ha fatto esperienza. Quello di Frankenweenie è un mondo che è davvero esistito nella mente di un bambino, il quale per lungo tempo non ha non ha avuto dubbi sulla sua ragionevolezza.

Pare si debba partire proprio da qui per capire cosa abbia messo in agitazione l’animo di Burton allorquando prese corpo uno dei leitmotiv costitutivi del suo cinema, ossia la revocabilità della morte, fonte di dolore certo, ma solo per chi è abituato a pensarla come punto di non ritorno. In tal senso il concetto di realtà è quanto di più estraneo al discorso: è l’immaginazione, l’amore, la speranza a dare un senso a tutto ciò, laddove tutto è disperato.

Una verità, questa, alla quale anche il più inquadrato dei personaggi in questo teatrino dell’orrore si piega di buon grado. Quel Mr. Rzykruski che, votato animo e corpo alla scienza, prima di congedarsi esorta il giovane Victor a non smettere di fare domande, fornendogli un piccolo consiglio in merito a quale debba essere l’ingrediente base di ogni sua ricerca: “ama i tuoi esperimenti!“.

Glissando sulla stantia retorica inerente alla moralità/immoralità/amoralità della scienza, in questo passaggio assistiamo a una sorta di corto circuito. Realtà e finzione si intersecano, generando una scintilla abbagliante. A chi è rivolta l’esortazione di cui sopra, se non allo stesso Burton? Non c’interessa approfondire più di tanto la critica alla sua filmografia, ma non siamo riusciti in alcun modo a trattenere l’idea che il regista in questo episodio parli a sé stesso. Come a dire: “potrai creare tutti i mondi che vuoi, ma se non li amerai visceralmente non potranno mai considerarsi riusciti“.

Da quell’istante in avanti assistiamo ad una vertiginosa impennata. Da qui il film si trasforma così come i terrificanti mostri che prendono vita, in un potpourri di immagini e citazioni da far impallidire anche l’opera più scafata. Quella di Burton è una mente popolata da strane creature, a prescindere dal numero di zampe o gambe. L’amichetta di Victor di cognome fa Van Helsing; il pompiere è uno zombie; i suoi amici somigliano ad altrettanti personaggi celebri nel panorama dei monster movie, come Zio Fester o Frankenstein.

Meta-mostri, passateci il neologismo, dai quali Victor/Burton diffida, e non a caso: il sentimento che li muove è dettato dalla pura e sterile curiosità, fine a sé stessa. Nessun discorso conciliante sulla presunta diversità, dunque, fil rouge che lega parecchie delle ultime, tuttavia riuscite, pellicole d’animazione approdate in sala di recente. In Frankenweenie sono tutti, a loro modo, anomali, ecco perché in questo caso certe derive non sono semplicemente possibili. Il mostro è colui che non sa amare e che quindi non ha qualcuno da amare, come Victor con Sparky.

L’ultima, rocambolesca mezz’ora circa chiude il grottesco cerchio a regola d’arte. Dopo averci fatto ridere, sorridere, riflettere ed anche commuovere, la movimentata vicenda di un amabile cagnolino e del proprio padrone giunge ad uno scontato epilogo. Conclusione che a questo punto vive solo in funzione delle peripezie che fin lì ci hanno condotto.

Frankenweenie è senz’altro una delle più accattivanti favole contemporanee; sognante e deliziosa come poche altre hanno saputo essere. Merito anche di una tecnica, a questo punto, inevitabilmente impeccabile, è questo il film più burtoniano degli ultimi anni, se non addirittura di sempre, corroborato da un magico mix tra bianco e nero e 3D, a loro volta ispirati. Un film che nella sua semplicità mette in discussione tutto e tutti, adulti e bambini inclusi. Ma soprattutto il suo stesso regista, che per l’occasione si apre come forse mai fino ad ora, rivelando uno squarcio su di un bizzarro universo dallo spioncino della sua fervida immaginazione.

Voto di Antonio: 8,5
Voto di Federico: 9
Voto di Gabriele: 8

Frankenweenie (USA, 2012). Di Tim Burton, con Winona Ryder, Martin Landau, Martin Short, Catherine O’Hara, Atticus Shaffer, Robert Capron, Conchata Ferrell, Tom Kenny e James Hiroyuki Liao. Nelle nostre sale dal 17 Gennaio.