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Torino Film Festival 2008: recensione di Helen di Christine Molloy e Joe Lawlor, Non-dit (Unspoken) di Fien Troch, Prince of Broadway di Sean Baker, Made in America di Stacy Peralta, Bi Mong (Dream) di Kim Ki-duk

Dopo la delusione di W. di Oliver Stone, di cui vi abbiamo parlato ieri in anteprima, è iniziato ufficialmente il concorso di questo Torino Film Festival 26. Iniziamo con la co-produzione Inghilterra – Irlanda Helen, diretto a quattro mani da Christine Molloy e Joe Lawlor, che, per raccontare la storia della neo-diciottenne Helen, usano un

24 Novembre 2008 11:00

unspoken Dopo la delusione di W. di Oliver Stone, di cui vi abbiamo parlato ieri in anteprima, è iniziato ufficialmente il concorso di questo Torino Film Festival 26. Iniziamo con la co-produzione Inghilterra – Irlanda Helen, diretto a quattro mani da Christine Molloy e Joe Lawlor, che, per raccontare la storia della neo-diciottenne Helen, usano un insolito espediente: fanno sì che la ragazza si presti ad interpretare il ruolo di una coetanea scomparsa, Joy, per poter aiutare la polizia nelle indagini.

Le due ragazze però sono agli antipodi: Joy ha tutto, soprattutto una famiglia, mentre Helen è orfana e non sa nulla del suo passato. Per scoprire sé stessa e le sue origini, Helen intraprende un viaggio confrontandosi con un alter-ego opposto, fino ad una svolta finale. Quella di Helen è una bella storia narrata in modo tranquillo, a tratti molto, con una regia attenta che tende forse un po’ troppo a caricarsi di dolci movimenti (tantissime le carrellate).

Molto apprezzato dal pubblico, che invece non pare aver gradito – visto il silenzio che ha seguito la proiezione – Non-dit (Unspoken) (nell’immagine un fotogramma) della belga Fien Troch. Si tratta della storia di due coniugi la cui figlia quattordicenne è sparita da ormai quattro anni. Finché un giorno la moglie non inizia a vedere sempre più spesso una ragazza in metropolitana che potrebbe essere sua figlia, mentre il marito inizia a ricevere strane telefonate…

Sarebbe anche un film godibile questo Non-dit se non trascinasse il suo discorso per circa 100 minuti, che sembrano durare molto di più. E sarebbe godibile se non ci fosse un’aria da film alla Haneke, non diretto però dal regista di Niente da nascondere (che, personalmente, mi pare che la regista si sia visto e rivisto).

Molto godibile invece il terzo film in concorso, Prince of Broadway dell’americano Sean Baker. 40000 dollari in tutto, molta improvvisazione degli attori, una storia che s’ispira in parte – a detta del regista – anche al nostro neorealismo, per una pellicola divertente e che ha un occhio anche sulla città di New York non banale.

La storia è semplice: Lucky (un nome, un programma…), immigrato clandestino ancora non in regola che vende merce contraffatta per strada nel Fashion District, si ritrova con un figlio che non sapeva di avere, visto che l’ex ragazza glielo ha lasciato per due settimane, fuggendo via. Con l’aiuto dell’attuale ragazza, Lucky tenterà di vivere come può, e pian piano si affezionerà al bambino: che però non sa ancora se è davvero suo…

I limiti del film stanno nei limiti produttivi: ma il gioco (con la camera a mano, ovvio) vale la candela, e la storia si segue con molto piacere. Applauso agli interpreti e grandi sorrisi a mille denti per il piccolo bambino protagonista.

E passiamo ai film non in competizione. Nella sezione Lo stato delle cose abbiamo visto il documentario Made in America, diretto da Stacy Peralta, colui che ispirò Lords of Dogtown e girò proprio Dogtown & Z-boys. Il film narra i trent’anni di violenze e guerriglie tra i Crips e i Bloods, bande formate da ragazzi neri, nella California del sud. Il risultato è stato di circa 15000 vittime in totale: la colpa però, per la maggior parte, è della polizia… Con buon senso del ritmo, una regia un po’ videoclippara ma a suo modo coinvolgente, raccogliendo testimonianze e materiale d’archivio, Peralta riesce a raccontare con dignità un’altra zona d’ombra dell’America.

bi mong dream

E arrivò anche il giorno di Kim Ki-duk, che presenta fuori concorso il suo ultimo film, ossia Bi Mong (Dream). Jin (Joe Odagiri, visto di recente a Venezia in Plastic City) si risveglia dopo un sogno in cui viene coinvolto in un incidente stradale. Convinto che quel sogno fosse troppo reale, decide di andare sul luogo dove avviene il sogno: e assiste ad un vero incidente.

La polizia sospetta di Ran, una ragazza che non c’entra nulla. Tentando di difenderla, Jin capisce che, quando lui sogna qualcosa, Ran agisce di conseguenza nella vita vera… L’ultimo Kim Ki-duk è decisamente “particolare”: dopo gli ottimi Ferro 3 e La samaritana, non c’è stato film che non sia stato discusso da critica e pubblico. Se dovessi fare un paragone, il film al quale si avvicina di più Dream nella filmografia del regista coreano è proprio il più discusso di tutti i suoi film, Time. Più parlato degli altri film, ancora una volta più urlato.

Kim resta senza dubbio bravissimo nella messa in scena, e la fotografia è di grande qualità. Tuttavia Dream mi sembra risolto in momenti comici volontari e altri un po’ involontari, ancora una volta per colpa di dialoghi non esaltanti. I suoi temi ci sono ancora, e i loro personaggi continuano a farsi male fisicamente, lacerati da malinconie e orrori interiori che possono essere momentaneamente placati solo così.

Ma il discorso sembra essere stato ormai risolto, anche nel precedente Soffio, che segnava un primo passo per tornare a livelli alti (anche se per il sottoscritto non si trattava di una pellicola così esaltante): Dream non aggiunge nulla alla filmografia di Kim, anche se avrebbe voluto, e non lo fa decisamente tornare ai livelli ai quali eravamo abituati fino a qualche annetto fa.

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