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Cannes 2013: Miele – Recensione in Anteprima

In attesa che in quel della Croisette vengano aperti i battenti, inauguriamo con due settimane circa di anticipo l’imminente Festival di Cannes. Trattasi di Miele, secondo film in veste di regista di Valeria Golino, selezionato nella sezione Un Certain Regard.

pubblicato 30 Aprile 2013 aggiornato 31 Luglio 2020 15:13

Appena otto mesi sono trascorsi dall’approdo nei nostri cinema di Bella addormentata, l’ultimo controverso film di Marco Bellocchio. Come allora, anche adesso l’argomento vertente sull’eutanasia continua a stazionare dinanzi ad un vicolo cieco. Qualcuno dirà che se ne sta discutendo, mentre magari la realtà dei fatti ci informa che uno dei problemi principali è esattamente il contrario. Sta di fatto che, restando al panorama cinematografico italiano, un’altra voce si è levata.

Ed è quella di Valeria Golino che, riprendendo il romanzo di Mauro Covacich (A nome tuo), ha dato vita a questa sua seconda opera da regista, ossia Miele. Protagonista Jasmine Trinca, nome in codice Miele, lo stesso con cui beffardamente si presenta ai propri clienti: degli aspiranti suicidi. Il suo lavoro è quello di agevolare il trapasso nella maniera più dolce possibile, e senza lasciare alcuna traccia.

Ciò è possibile poiché gli unici casi di cui si occupa Irene (questo il vero nome di Miele) sono essenzialmente casi considerati estremi; in altre parole, persone già condannate dalla medicina, oppure, nel migliore dei casi, stanchi di convivere con il proprio male. Avanti e indietro dal Messico, dove acquista un farmaco veterinario che successivamente somministra ai suoi pazienti, l’esistenza di Irene viene scandita più dallo smaltimento dei vari jet lag che altro: finché un giorno la già confusa protagonista non bussa alla porta di tale ingegner Grimaldi, uno spassoso Carlo Cecchi.

Qui la svolta. Il tentativo della Golino, per forza di cose coadiuvata dalla Trinca, è quello di umanizzare quanto più possibile la figura senz’altro forte della donna: capello corto, abbigliamento oltremodo giovanile e sguardo costantemente accigliato. Quella di Miele è una missione, che come tale impone delle scelte e dei sacrifici: in questo caso una velata abiura di sé stessa. Indossare stancamente una camicia, con aria visibilmente provata, diventa quindi quell’abitudine rituale che precede l’estremo e risolutorio ausilio che concede a chi le chiede aiuto (previo pagamento di una lauta somma; “esentasse”, ovvio). In parte boia, in parte madre, quasi stona quell’ostentata e rigida calma con cui fino all’ultimo cerca di persuadere non troppo convintamente i suoi assistiti ricordando loro «di essere ancora in tempo per tornare indietro».

Pianto strozzato di una donna che, dietro a queste sue palesi contraddizioni esterne, cela moti ben più agitati al proprio interno. La verità è che nemmeno lei è pienamente convinta di fare la cosa giusta; o meglio, ritiene sia sacrosanto alleviare il dolore di chi soffre sottraendolo alla sofferenza, tuttavia non è al tempo stesso sicura che tocchi a lei anche solo contribuire a tale rimedio ultimo. Omen nomen, dunque, il titolo della pellicola diventa il destino della stessa: Miele si focalizza con forza proprio su questa ragazza, che ha votato sé stessa ad una causa che la sta gradualmente sfiancando.

Sorride e scherza Irene, ma solo quando con l’altro sa di dovercisi intrattenere più dei soliti due/tre minuti prima che il suo letale intruglio faccia effetto; sì perché, in quest’ultimo caso, trattasi tutt’al più di un robot, di un’anima in pena da cui non traspare alcuna emozione. Emozioni che eppure ci sono, ma a che a noi spettatori è dato cogliere in maniera di gran lunga più discreta. Ed è proprio questo suo costante sopravvivere lungo una linea di confine che spossa la protagonista, mentalmente, spiritualmente e finanche fisicamente.

Una sofferenza che non copre del tutto quella di coloro che, man mano, forzano il proprio cammino, ma che si somma in un contesto da cui non sembra esserci scampo, mancando a tutti (“vittime” e “carnefici”) una bussola per orientarsi. Siamo incerti sul messaggio (!), ma di questo Miele qualcosa senz’altro rimane, come alcune scene contenutamente forti e toccanti presso i vari clienti, oltre che i numerosi quesiti che la pellicola solleva. Per esempio, chi e in che misura dovrebbe avere diritto a porre termine alla propria esistenza? Glielo domanda il sarcastico ma ficcante ingegner Grimaldi, il quale estende la già intricata questione: «Esiste solo il male fisico? Ed è quello che ha la precedenza rispetto agli altri tipi di male?», evocando l’ovvia implicazione circa i tipi di patologia ai quali estendere l’applicazione dell’eutanasia.

Abbiamo gradito il dribbling di certa terminologia, oramai divenuta pressoché banale per il reiterato e non di rado illogico uso che se ne fa, come «dignità dell’essere umano» e via discorrendo; in tal senso ci pare molto più efficace la figura dell’appena citato Grimaldi, che in un apprezzabile slancio di autenticità non fa ricorso ad alcuna ideologia, alcun partito, alcuna logica strettamente razionale: è stanco di questo mondo e tanto basta a fargli desiderare di lasciarlo andare in malora senza di lui. Conclusione amara, da humor nero per come prende corpo attraverso le parole dell’ottimo Cecchi, ma non per questo insensata. Alla fine potrebbe aver ragione lui quando impreca, come se fosse l’ultima di innumerevoli volte, all’indirizzo della stupidità dell’uomo contemporaneo.

Un percorso se vogliamo un po’ meno freddo rispetto al summenzionato film di Bellocchio, anche se nella costruzione dell’intera vicenda non si mostra all’altezza di quest’ultimo, optando invece per un approccio per certi aspetti più sentimentale, con sporadici accenni di poesia – altra cosa rispetto all’intrinseca razionalità cui si aspira in Bella addormentata circa la sua strutturazione e successiva stratificazione. Eppure, giocando al ribasso, Miele ne guadagna in intensità, non sempre ad alti livelli ma quantomeno non intaccata dal desiderio di mettere troppa carne al fuoco. Mette a segno non molti colpi questo lavoro della Golino, ok; ma quei pochi che ci tocca incassare, in fin dei conti, riescono a farsi sentire.

Voto di Antonio: 6,5
Voto di Gabriele: 7

Miele (Italia, 2013) di Valeria Golino. Con Jasmine Trinca, Carlo Cecchi, Libero de Rienzo, Vinicio Marchioni, Iaia Forte, Roberto De Francesco, Valeria Bilello, Eastynn Chadwick, Vera Talaia, Alan Orlando Chavez, Darian Ramos, Efrain Gonzalez, Fabrizio Zacharee Guido, Jacqueline Calderon-Guido e Bruno Sáinz Talaia. Nelle nostre sale da domani, 1 Maggio.

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