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Nebraska: recensione in anteprima del film di Alexander Payne

Alexander Payne con Nebraska gira un piccolo road movie in bianco e nero, con tanto di logo vintage della Paramount in apertura. Una commedia che ragiona sul valore della memoria e sui ricordi, nascondendo sotto la superficie da divertente commedia una riflessione sulle radici dell’America. Premio per il miglior attore a Bruce Dern al Festival di Cannes 2013. Ecco la recensione.

pubblicato 23 Maggio 2013 aggiornato 31 Luglio 2020 14:41

David è stato appena lasciato dalla compagna con cui ha vissuto per due anni. In più un giorno riceve una telefonata dalla polizia: Woody, suo padre, si trova alla centrale perché è stato ritrovato a camminare da solo per strada. Direzione: Nevada. Partenza: Montana… Woody vuole infatti raggiungere la città di Lincoln per saldare un milione di dollari vinto grazie ad un volantino della Mega Sweepstakes Marketing. David non ha dubbi sul fatto che quel volantino non gli farà vincere nulla, ma decide comunque di partire in macchina col padre verso Lincoln.

Alexander Payne torna indietro, in tutti i sensi. Torna ad un progetto che aveva in mente anni fa, quando ancora girava Sideways, il film della sua consacrazione. Firma il suo secondo film dopo l’esordio basato su un progetto originale, con una sceneggiatura scritta dal semi-esordiente Bob Nelson. Ripesca addirittura il logo vintage della Paramount in apertura. E, cosa fondamentale, ritorna a casa sua, nel suo stato d’origine: quel Nebraska che dà il titolo al film.

Payne gira uno dei suoi film più piccoli e personali e non fa nulla per nasconderlo, anzi. Non usa nessuna star alla George Clooney, nessun budget da Indiewood, sfrutta il bianco e nero per creare un’atmosfera nostalgica alla Bogdanovich ed un’impressione di economia indie. Furbo? Diciamo consapevole: Payne non è più ormai uno che deve dimostrare nulla (c’è chi lo ama e chi lo odia, e le cose non cambieranno mai).

Però Nebraska sembra il suo film d’esordio, o al massimo – vista la sicurezza che traspare dal lavoro – un’opera seconda. Non perché risulti un po’ naïve, tutt’altro, ma perché è evidente che, caso più unico che raro, il “tornare indietro” abbia fatto bene al regista, facendogli guadagnare in freschezza e profondità. Cosa che molti ancora non trovano in Payne, e che invece chi scrive in fondo ha sempre intravisto tra le pieghe delle sue storie, tra i suoi personaggi a volte strampalati e le scenette comiche.

Dopo il successo di Paradiso amaro, Payne torna a girare un puro road movie per certi versi più vicino ad A proposito di Schmidt che Sideways, anche perché Woody (un eccezionale Bruce Dern a cui Will Forte non riesce a tenere testa) è scorbutico quanto Jack Nicholson in quel film. Woody è forse anche peggio: è cocciuto e non vuole saperne di ascoltare gli altri. “Ho servito il mio paese, pago le tasse, ho il diritto di fare quel che voglio”, dice da tipico anziano statunitense che le ha passate tutte. Continua anche a bere, nonostante il suo già precoce alcolismo sia peggiorato da quanto tornò dalla guerra in Corea.


Padre e figlio incontrano ovviamente vari personaggi nel loro cammino, ma come sempre nei film di Payne, compreso l’ultimo Paradiso amaro, non incontrano persone nuove, ma i personaggi visitano parenti e amici di vecchia data. Tra questi ci sono i componenti della famiglia di zio Ray, fratello di Woody, che vivono ad Hawthorne. Una tipica famiglia del Midwest, con tanto di figli rimbambiti e lunghi momenti assieme passati sul divano a guardare la televisione.

In questo percorso nella cittadina di Hawthorne, dove Woody ha passato gran parte della sua vita prima di trasferirsi in Montana, i due protagonisti vengono raggiunti dalla madre di famiglia, Kate (il ciclone June Squibb), e dal fratello di David, Ross. Assieme viaggiano tra le tappe della vita dei due genitori: nell’affrontare questo percorso basato sul ricordo e la memoria, il regista al solito non usa mai la mano pesante, ma si tiene bene in equilibrio. Perché, più che la commozione per il ricordo in sé, per il regista conta il valore di quel ricordo.

Ognuno in Nebraska racconta il proprio ricordo personale (e a volte, vista l’età, sbaglia!), ed è chiaro che a Payne interessa continuare in questo modo un discorso sulle proprie radici personali che ha porta avanti da un po’, anche se era soprattutto ben esplicito con Paradiso amaro. Che al regista interessi la “composizione” del Midwest lo si vede bene da come inquadra le grandi strade nel deserto, i motocuclisti che viaggiano in gruppo, le pompe di benzina, i motel, le chiese, i bar coi banconi e le taverne piene di vecchi e karaoke. C’è persino il Monte Rushmore.

Ci sono le gag e le battute tipiche del cinema di Payne, certo, ma c’è una triste riflessione sulle radici degli States e sulla sua (in)capacità di ricordare. “Ha l’Alzheimer?”, chiede un’impiegata della Mega Sweepstakes Marketing a David a proposito del padre. “No, crede soltanto nelle cose che la gente gli dice”, “Oh, che peccato”. Una frase così in un contesto del genere non può non far pensare che Payne stia parlando dell’America tutta, descritta in Nebraska come vecchia e, quindi, in procinto di morire assieme ai propri personali ricordi.

L’immagine finale, poi, conferma la visione inaspettatamente oscura di Payne, ben nascosta sotto il malinconico bianco e nero e il ritmo divertito da commedia. Ci si commuove per il rapporto centrale tra padre e figlio, certo, ma il cuore viene toccato soprattutto da altro. Così, dopo aver appreso tutte le informazioni sul passato e sul rapporto di Woody e Kate, quando lei gli dà un bacio sulla guancia, allora sì che scorrono le lacrime.

Voto di Gabriele: 8
Voto di Federico: 9

Nebraska (Usa 2013, drammatico 110′) di Alexander Payne; con Will Forte, Bruce Dern, Bob Odenkirk, Stacy Keach, Devin Ratray, Rance Howard, June Squibb, Angela McEwan. Prossimamente in sala grazie a Lucky Red.

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