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L’Uomo d’Acciaio: quel corto ambientato in Kansas schiacciato dal contorno

L’Uomo d’Acciaio arriva oggi nelle sale italiane. Il nuovo film su Superman ha già diviso la critica e sta facendo molto discutere, tra sostenitori, fan e delusi. Dopo la recensione ufficiale piuttosto positiva di Cineblog, ecco un’opinione negativa che prova a far luce su quelli che potrebbero essere i principali problemi del reboot di Zack Snyder.

pubblicato 20 Giugno 2013 aggiornato 31 Luglio 2020 13:20

Attenzione SPOILER: si consiglia di leggere il post solo dopo aver visto L’Uomo d’Acciaio.

C’è un “corto” bello e forse addirittura toccante all’interno di L’uomo d’acciaio (Man of Steel), e riguarda l’infanzia e l’adolescenza di Clark Kent: tutto incentrato sulla scoperta della propria natura, dei propri poteri e incentrato soprattutto sul rapporto con il padre. Questo “corto” dev’essere però trovato all’interno del film di Zack Snyder. E per trovarlo bisogna scavare e gettare via tutto ciò che gli sta attorno. Così, all’incirca, bisogna gettare alle ortiche due ore che affannano e distruggono le potenzialità emotive di questo corto che, da solo, ha comunque poco senso di esistere…

Come un incontro tra il cinema di Malick e un delicato indie ambientato nel Kansas più rurale, questa sezione di Man of Steel sembra provenire da un altro mondo, forse addirittura sembra girato da un altro regista. E pure il resto del film sembra girato da un’altra persona, da chiunque tranne che da Snyder: che non sarà il genio che qualcuno va decantando e non avrà rivoluzionato un tubo, ma almeno qualcosa di personale (anche fallendo) l’ha fatta, al contrario di molti shooter di Hollywood – vedi ad esempio il Marc Forster del ridicolo World War Z o il Louis Leterrier dell’inutile Now You See Me.

La storia scritta da Christopher Nolan e David S. Goyer punta a rilanciare il personaggio attraverso una sorta di Superman Begins che rimetta le fondamenta per un nuovo franchise dallo stile più cupo, come è successo con la trilogia de Il cavaliere oscuro. Si vedono qua e là tocchi di Nolan (i dubbi morali del personaggio in primis), tutto sembra indirizzato verso il gran successo del Superman versione 2013. Qualcosa però va decisamente storto, e il risultato è un film diviso in diversi frammenti e due grandi macro-sezioni: la battagliona finale e tutto quello che viene prima, con tanto di prologo e salti tra passato e presente.

Il continuo viavai tra scene del passato e del presente di Clark, paradossalmente, tiene a distanza: invece di emozionare, la storia del giovane protagonista, outsider costretto a dover prima imparare a dosare la sua super-sensibilità e poi costretto ad accettarsi proprio come alieno ma “umano” di fronte agli altri, resta tutta sulla carta. In questo continuo gioco di rimandi paralleli tra ieri e oggi, in questo montaggio frammentato e “ricercato”, mancano i giusti incastri: come se nel soggetto di Nolan le idee ci fossero pure, ma nella sceneggiatura (firmata solo da Goyer) non fossero state buttate giù in modo appropriato.


A volte la scrittura a-cronologica fa brutti scherzi, nonostante sia spesso a prima vista bellissima (Nolan se na qualcosa). In Man of Steel la struttura di questo primo troncone appare come un mero esercizio: una “gran trovata” dalla resa piuttosto inerte, e che a tratti dà persino l’impressione di pura confusione. E non è certo un caso se, per spiegare alcuni passaggi fondamentali, Goyer non sia riuscito ad inserirli all’interno del racconto, ma corra ai ripari con i soliti spiegoni.

Passata quindi questa sezione in cui viene narrata la storia del nostro eroe, si passa all’ultima ora e passa: sfiancante. Una battaglia finale che, quando pensi sia arrivata al limite, ricomincia più roboante di prima, fregandosene di tutto e tutti (chissà quanti morti ammazzati fra quelle macerie: ma non è questo il punto, ci mancherebbe). Qui Man of Steel sembra girato da Michael Bay: ma che differenza c’è allora tra la seconda parte di Transformers – La vendetta del caduto e Man of Steel? Perché uno dovrebbe preferire il primo al secondo o viceversa? Vi diranno che Snyder, comunque, è meglio di Bay: peccato che qui si azzeri totalmente, piaccia o meno.

Man of Steel diventa così un altro anonimo blockbuster, di quelli che, con soggetti e personaggi così, non vorresti in fondo trovarteli davanti. Con l’aggravante che Snyder ci infila di suo soltanto alcuni movimenti di macchina e le sue solite inquadrature che non possono non ricordare il mondo dei videogiochi. Quando Superman combatte contro Faora è difficile non pensare a quelle pubblicità di videogame in cui vengono mostrati alcuni spezzoni tra i più realistici dell’intero gioco: e non è certo una bella sensazione.


A farne le spese sono a questo punto i personaggi: a chi interessa qualcosa, in fondo, di Lois Lane? Il bacio tra lei e Superman dopo la catastrofica battaglia finale è così forzato, posticcio e posto dopo un percorso di “crescita” della loro relazione quasi nullo, che non si può non sorridere. E pure il Generale Zod del solito grande Michael Shannon non inquieta come dovrebbe, schiacciato dall’azione e dalla CGI.

Ma la cosa più grave, ed è quella che fa pure un po’ arrabbiare, è che in mezzo al marasma viene meno proprio il punto più bello e toccante del film sulla carta: il rapporto tra Kal-El/Clark e i suoi due “padri”, tra Superman e Jor-El e, soprattutto, Jonathan Kent. Ancora una volta sembra tutto rimasto lì, imprigionato nel soggetto di Nolan e Goyer: e neppure un tornado ed un sacrificio terribile riescono a scuotere.

Non ce la fa neppure quella bellissima immagine di un bimbo che svolazza con un mantello rosso per i prati, con nelle vicinanze il cane di famiglia. Quasi piangevamo nel vedere quelle stesse immagini nel primo trailer, quasi ci appare come una paraculata quando appaiono nel finale del film. Troppo tardi per risvegliare il sentimento, per toccare le corde del cuore. Tutto sepolto, tutto gettato alle ortiche: anche quel “corto” ambientato a Smallville, Kansas, circondato dal nulla e che non può, solo soletto, trascinare un film le cui emozioni sono rimaste imprigionate chissà dove.