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Cannes 2011 – This Must Be The Place: parla Paolo Sorrentino

A Cannes è il giorno di Paolo Sorrentino: scopriamo This Must Be The Place

pubblicato 20 Maggio 2011 aggiornato 1 Agosto 2020 11:43



Il giorno di Paolo Sorrentino. This Must Be The Place sbarca finalmente sulla Croisette. Aspettando la nostra recensione in anteprima, ad opera del nostro inviato Antonio, torniamo a parlarvi del film grazie ad una ricca intervista al regista, già premiato al Festival con Il Divo, presente nel pressbook ufficiale. Protagonista assoluto del film uno Sean Penn in odore di Prix d’interprétation masculine.

Il film, scritto dallo stesso Sorrentino e da Umberto Contarello, e prodotto da Nicola Guiliano della Indigo Film ed Andrea Occhipinti di Lucky Red, con un budget di 28 milioni di dollari, racconterà la storia di un ricco ed annoiato divo del rock ormai ritiratosi dalle scene, che decide di spezzare la noia andando alla ricerca dell’uomo che ordinò l’esecuzione di suo padre, in un campo di concentramento, durante la seconda guerra mondiale. Al fianco di Penn, Frances McDormand e la giovane Eve Hewson, figlia diciannovenne di Bono degli U2.

Come hai conosciuto Sean Penn e come è nata l’idea di questo film?
Ho conosciuto Sean Penn nel 2008 durante la serata finale del Festival di Cannes, l’anno in cui lui era presidente di giuria e io ho vinto il premio della giuria per Il Divo. In quell’occasione aveva espresso giudizi estremamente lusinghieri sul mio film. La cosa mi sembrò un avvenimento sufficientemente eccezionale da spingermi a pensare, utopisticamente, ad un film con lui. Inaspettatamente, come in un autentico sogno americano, l’utopia è diventata realtà.

 Cannes 2011 - This Must Be The Place: parla Paolo Sorrentino

Da cosa hanno avuto origine i due temi principali del film: il ritratto di una rock star depressa e la caccia ad un vecchio nazista?
Per quanto mi riguarda, ogni film deve essere una caccia smodata all’ignoto e al mistero. Non tanto per trovare una risposta, quanto per continuare a tenere viva la domanda. Durante la genesi di questo film, una delle tante domande che non mi abbandonavano mai riguardava la vita segreta, misteriosa che, da qualche parte nel mondo, gli ex criminali nazisti sono costretti a condurre. Uomini, ormai, con le armoniose fattezze di anziani innocui e bonari, in realtà preceduti dall’innominabile crimine par excellence: lo sterminio di un popolo. Dunque, un rovesciamento dell’immaginario. Per scovare uno di questi uomini ci voleva una caccia e per avere una caccia ci voleva un cacciatore. Qui entra in gioco un elemento ulteriore del film: una mia necessità istintiva di innescare nel dramma una componente ironica. Allora, per raggiungere questo obiettivo, insieme a Umberto Contarello, abbiamo cominciato a scartare le ipotesi del cacciatore “istituzionale” di nazisti e pian piano siamo approdati ad un opposto assoluto del detective: una ex rockstar lenta e pigra, sufficientemente annoiata e chiusa in un proprio mondo autoreferenziale da essere così, apparentemente, la figura più lontana dalla ricerca insensata, in giro per gli Stati Uniti, di un
criminale nazista, ormai probabilmente morto. Lo sfondo del dramma dei drammi: l’olocausto, e il suo avvicinamento a un mondo opposto, fatuo e mondano per definizione, quale quello della musica pop e di un suo rappresentante, mi è sembrata una combinazione sufficientemente “pericolosa”, da poter dare vita ad una storia interessante. Perché solo dentro il pericolo del fallimento, credo che il racconto possa autenticamente vibrare. Spero di aver scansato il fallimento.

Parlaci del personaggio di Cheyenne. Chi è?
Cheyenne è infantile, ma non capriccioso. Come molti adulti rimasti ancorati all’infanzia ha il dono di preservare solo gli aspetti limpidi, commoventi, sopportabili dei bambini. Il suo ritiro prematuro dalle scene, a causa di un trauma, lo costringe a condurre una vita che lui non riesce a mettere ben a fuoco. Un trascinarsi, che oscilla tra la noia e il leggero stato depressivo. Galleggia. E sovente gli uomini che galleggiano trovano nell’ironia e nella leggerezza l’unica possibilità decente di stare al mondo. Questo atteggiamento ha un preciso riscontro nella percezione che gli altri hanno di lui: Cheyenne è un autentico, involontario portatore di gioia. E quando nel film Cheyenne afferma in modo candido e sfrontato che “la vita è piena di belle cose” si è portati quasi a credergli. Perché è un bambino che parla e, da qualche parte, è rassicurante pensare che i bambini abbiano sempre ragione.

Perché sentivi il bisogno di raccontare una storia sull’Olocausto?
È sproporzionato affermare che ho fatto un film sull’Olocausto. Il film è ambientato ai nostri giorni. Affonda le mani in quell’immane tragedia solo per squarci, per timide intuizioni o deduzioni. Però è vero che volevo che lo sfondo dell’Olocausto angustiasse l’oggi del racconto di questo film. Ho cercato di farlo da un’angolazione diversa e, spero, inedita. Il film si concentra poi, in prevalenza, sebbene con un pudore dettato dalla mia biografia, su un altro pilastro centrale: l’assenza, che possiede per definizione sempre una presenza, del rapporto tra padre e figlio.

Come mai questo nome, Cheyenne?
E’un nome da rock star, da divo del rock. Cercavo un nome che fosse credibile. Abbiamo pensato a uno dei nomi più azzeccati della storia del rock: Siouxsie and the Banshees e abbiamo vigliaccamente mutuato il nome in Cheyenne and the Fellows.

Qual è stata la reazione di Sean Penn alla sceneggiatura?
Ho mandato la sceneggiatura a Sean Penn con la ferma convinzione di essere destinato ad aspettare mesi prima di ottenere una risposta. Voci che non so se corrispondono a verità dicevano che Sean riceve qualcosa come quaranta sceneggiature al mese. Un secondo dopo aver spedito il copione la mia mente già lavorava alacremente a una qualsiasi altra idea di film che avesse un minimo di concretezza, perché francamente mi sembrava impossibile che questa mia bizzarra idea di fare un film indipendente in America con un fresco vincitore di Oscar potesse avere un suo realismo. Invece dopo 24 ore ho trovato un messaggio in segreteria di Sean Penn. Naturalmente, come avrebbe fatto chiunque altro, ho subito pensato che si trattasse di una burla. Il mio amico produttore Nicola Giuliano è piuttosto abile sia negli scherzi che nelle imitazioni. Mi sbagliavo. Allora, nel cuore della notte, ho parlato al telefono con Sean Penn, che mi ha detto che gli era piaciuto molto il copione ed esprimeva divertito solo preoccupazione per una scena in cui doveva ballare. Mi è sembrato un problema ampiamente risolvibile. Un mese dopo, insieme al mio sceneggiatore e al mio produttore, siamo andati a trovare Sean a San Francisco. Abbiamo trascorso una serata meravigliosa dove, per incursioni improvvise, lui mi lasciava intravedere le sue intenzioni sul personaggio. Confermandomi quello che sospettavo: i grandi attori ne sanno sul personaggio sempre molto di più del regista e dello sceneggiatore.

Qual è stato l’apporto di Sean al film?
Sean Penn è l’attore ideale per un regista. Perché è estremamente rispettoso delle idee del regista e non solo ha il dono di migliorarle, ma possiede anche il talento sconfinato che gli permette di raggiungere un’autenticità e una profondità sul personaggio che francamente a me sarebbero state sconosciute anche se ci avessi riflettuto una vita intera. Con Luca Bigazzi, il direttore della fotografia, eravamo strabiliati non solo dalla bravura, che avevamo sì messo in conto, sebbene non fino a queste vette, ma anche dalla precisione di tutto. Io e Luca, prima di cominciare un’inquadratura, avevamo sempre tante cose da dirgli, per poi renderci conto, pochi secondi dopo, che non c’era niente da dire, perché aveva capito tutto in anticipo e da solo, gesti, sguardi, precisione dei movimenti, la capacità immediata di facilitare certe inevitabili difficoltà tecniche.

Parlaci del look piuttosto estremo di Cheyenne.. il rossetto, il trucco, i capelli, l’abbigliamento
tutto in nero…

Il look è ispirato a quello di Robert Smith, il leader dei Cure. Da ragazzo avevo visto i Cure in concerto diverse volte. Poi, tre anni fa, ci sono tornato e ho visto Robert Smith, ormai
cinquantenne, con lo stesso, immutabile look di quando aveva vent’anni. E’ stato “impressionante” nel senso positivo della parola. Vedendolo da vicino, mentre attraversava il backstage, ho compreso quanto può essere bella e commovente la contraddizione nell’essere umano. Un cinquantenne immerso in un look che si addice per definizione ad un adolescente. E non c’era niente di patetico. C’era solo una cosa che al cinema come nella vita può assumere i contorni estatici della meraviglia: l’eccezionale, inteso come eccezione unica e inebriante. Mesi dopo ho avuto modo di rivivere la stessa eccezionale esperienza quando in una caldissima giornata di luglio, a New York, abbiamo fatto la prima prova di trucco e costumi con Sean Penn. È stato un piccolo miracolo che accadeva sotto i miei occhi, assistere in silenzio alla progressione inesorabile dell’attore Sean Penn, che un passo alla volta, attraverso il rossetto, il rimmel sugli occhi e poi indossando i costumi e infine muovendosi, in un modo naturale e allo stesso tempo diverso da come si muove lui, si trasfigurava in un’altra cosa, diametralmente opposta, che era il personaggio di Cheyenne.

Ci parli un po’ del rapporto tra Jane e Cheyenne
Devo confessare che, per questo sottotesto, ho rubacchiato qua e là dal reale rapporto che intrattengo con mia moglie. Un rapporto dove l’astrattezza stralunata dell’uomo è fortunosamente compensata dalla concretezza inesorabile della donna che consente che le cose vadano avanti senza traumi e senza inutili tragedie. Questa contrapposizione tra astrattezza e concretezza ho cercato, insieme ad Umberto Contarello, di farla emergere dentro una cornice ironica. Con Sean Penn e Frances McDormand la dimensione giocosa del rapporto è stata assicurata in fretta anche in virtù di una loro naturale attitudine a far ridere. Sono stato molto fortunato che Frances McDormand abbia accettato di interpretare il personaggio di Jane. Per convincerla, le avevo scritto una lettera in cui le dicevo che se lei avesse rifiutato quel ruolo avrei semplicemente modificato la sceneggiatura rendendo Cheyenne scapolo o vedovo. Ed era la verità. Non riuscivo a pensare a nessun altra attrice che non fosse lei. Quando l’ho incontrata ho trovato conferma all’idea che mi ero fatto di lei, una donna dall’intelligenza rapidissima, coniugata con un’ironia imprevedibile e inesauribile.
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Nella parte del film che si svolge a Dublino, Mary gioca un ruolo molto importante nella vita di
Cheyenne…

Mary è una giovane amica e fan di Cheyenne, segnata da un dolore che Cheyenne cerca come può di alleviarle. Ma alla lunga, sarà lei, nonostante la giovane età, ad alleviare forse qualche dolore a Cheyenne. Mi sembrava un rovesciamento interessante dei ruoli. Per questo ruolo ho scelto Eve Hewson, una giovane attrice irlandese molto promettente.

Eve proviene da una famiglia con una grande dose di creatività. Pensi che questo spieghi la maturità che dimostra, così rara in una persona della sua età?
Non sono in grado di rintracciare le origini della sua maturità, però sono rimasto subito molto stupefatto da come una ragazza così giovane possedesse una struttura mentale così adulta. Questo connubio, indispensabile al personaggio del film, penso che sarà anche una grande risorsa per il suo futuro di attrice.

Come mai hai deciso di girare a Dublino?
Molto semplicemente, Dublino possiede bellezza e malinconia. Due sentimenti che possono convivere magnificamente in un racconto cinematografico.

E perché hai girato negli Stati Uniti?
Perché volevo misurarmi in maniera spudorata e spericolata con tutti i luoghi iconografici del cinema che mi hanno fatto amare questo lavoro sin da quando ero ragazzino: New York, il deserto americano, le stazioni di servizio, i bar bui coi banconi lunghissimi, gli orizzonti lontanissimi.I luoghi americani sono un sogno e, quando ci sei dentro, non diventano reali, ma continuano ad essere sogno. Questa stranissima condizione di continua sospensione dalla realtà mi è accaduta solo negli Stati Uniti.

Puoi parlarci del ritratto che hai fatto dell’America?
E’ sempre pericoloso usare la tua visione di qualcosa che non conosci a fondo, e la mia conoscenza degli Stati Uniti, nonostante i numerosi viaggi nell’entroterra, rimane una conoscenza per così direturistica. Però avevo l’alibi di muovermi insieme ad un protagonista, Cheyenne, che mancava dagli Stati Uniti da trent’anni. Eravamo entrambi turisti, sebbene senza un biglietto di ritorno preciso. E così ci siamo messi alla scoperta di un mondo che è stato raccontato così tante volte proprio perché è inafferrabile e mutevole.

Conoscevi già Harry Dean Stanton e Judd Hirsch?

Harry Dean Stanton è uno dei miei idoli cinematografici. Per questo film avevo la possibilità di incontrare gli attori americani e uno dei primi che ho chiesto di vedere è stato proprio Harry Dean Stanton. Il primo incontro è stato emozionante e sorprendente. Siamo stati in silenzio per untempo lunghissimo. Io tramortito dall’imbarazzo e lui completamente a suo agio in questa specie di acquario. Poi, di colpo, senza preavviso, ha detto: “Io vivo bene perché non ho le risposte”. Io ho azzardato, tanto per dire una cosa: “L’importante è non farsi le domande”. È seguito un altro silenzio e poi ci siamo salutati. Qualche ora dopo mi ha chiamato un suo assistente e mi ha detto che Harry Dean era rimasto favorevolmente colpito da me. Mi è sembrato, per un attimo, di vivere dentro una buona sceneggiatura. E’ stato Sean Penn, invece, a suggerirmi di vedere Judd Hirsch per il ruolo di Mordecai Midler, per il quale incontravo difficoltà a trovare l’attore adatto. Quando è apparso Judd non ci sono stati più dubbi. Non solo perché è un attore formidabile ma perché era quel personaggio: umano, sensibile e scorbutico allo stesso tempo, simpatico e paterno senza fare nessuno sforzo per esserlo.

C’è qualcosa nello stile e nell’estetica di questo film che il pubblico potrà ricondurre ai tuoi film precedenti?
Non sono il giudice più adatto per questo genere di confronti. Spero di aver mantenuto fede al principio che mi ha mosso in relazione a questo film. Frequentare il più possibile una messa in scena semplice e, al contempo, “bella”, mettendomi prevalentemente al servizio del personaggio.

In questo film la musica gioca un ruolo molto importante. Come l’hai scelta?
Come direbbero certe scrittrici di romanzi rosa: col cuore. Al di là della battuta, è proprio così. Non sentivo la necessità, come ho fatto in passato, di “ragionare” sulla musica. Volevo invece rivivere quelle vertigini di passione ed emozione che provavo da ragazzo quando mio fratello, di nove anni più grande, m’introduceva alla bellezza del rock. Ho trascorso quel periodo della mia vita a vivisezionare fino alla patologia soprattutto i Talking Heads e il suo genio: David Byrne. E allora un po’ temerariamente ho chiesto a David Byrne tre cose: di usare This must be the place come titolo e canzone portante del film, di comporre la colonna sonora e di interpretare se stesso nel film. E, clamorosamente, David ha accettato tutte e tre le cose.

Hai avuto dei riferimenti nel girare questo film?

Penso che, inconsciamente, ci siano sempre molti riferimenti. In maniera invece consapevole, devo dire che spesso col pensiero andavo a quel capolavoro di film di David Lynch che è A straight story.

Come credi che reagirà il pubblico?
Io ho reagito molto bene. E io faccio parte del pubblico.

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