Home Festival di Venezia Venezia 2011: l’uomo in Clergyman vuole aiutarci a pensare e a pentirsi

Venezia 2011: l’uomo in Clergyman vuole aiutarci a pensare e a pentirsi

Italo Moscati ci parla oggi di Marco Muller, Ermanno Olmi e il nuovo Cime Tempestose del 2011: direttamente dalle pagine di Cineblog

pubblicato 6 Settembre 2011 aggiornato 1 Agosto 2020 08:41


Mister in Clergyman è Marco Muller, direttore della Mostra Cinematografica di Venezia, come sappiamo: basta guardarlo se l’abito fa il monaco, Marco con giacche chiuse fino al collo e quasi sempre di colore nero fa il direttore dalle buone intenzioni. Cosa ha combinato in questi penultimissimi giorni della competizione e del glamour, entrambi sommessi?

Ad esempio ha avuto l’idea di mettere insieme, in una stessa giornata, il film di Ermanno Olmi Il villaggio di cartone, fuori concorso; e Cime tempestose, tratto liberamente dal romanzo della Bronte, di Andrea Arnold, in concorso. Sono lavori diversi, diversissimi, con tempi e modi di ripresa molto distanti tra loro. Ma il reverendo Muller che si barcamena fra le tante religioni con cui deve trattare (credo che sia anche un pizzico buddista) ha scelto la via di un ecumenismo indiretto.

Nel “Villaggio di cartone” ritroviamo un Olmi particolarmente meditativo, impegnato nel raccontare una storia fatta di storie dentro una chiesa in una landa non precisata ma vicina alla sua terra lombarda, leghista e non proprio tenera con gli immigrati. Non starò certo a specificare per dettaglio la trama. Mi basterà dire che in una chiesa dismessa resta con ostinazione il vecchio parroco che, una notte, aprirà si fa per dire la porta a un gruppo di immigrati africani (la porta l’avrebbero comunque forzata) che improvvisano un piccolo accampamento con tende che paiono ricordare la capanna di Betlemme.

Wuthering_Heights_CIME_TEMPESTOSE_ANDREA_ARNOLD

Potete immaginare lo sviluppo della situazione. Ma io, che stimo Olmi e ne conosco la cultura cinematografica, propongo di vedere questa situazione sotto la luce lontana di un grande film di Luis Bunuel, “L’angelo sterminatore”. In esso Bunel immagina che le persone borghesi non riescano ad uscire dalla chiesa dove sono entrati. Nel “Villaggio di cartone” il sogno degli immigrati, occhi solo per piangere, sono chiusi nella chiesa dismessa e non vorrebbero uscire, almeno per il momento.

La chiesa in Bunuel e in Olmi è il luogo dei simboli, delle permanenze spirituali, del destino che non smette di interrogarci. I borghesi sono “condannati”ad una clausura punitiva; gli immigrati nelle terre olmiane sono “condannati” ad un esodo senza un certo domani, dopo aver navigato “anche” sulla zattera, la chiesa, in cui si sono rifugiati. Olmi è Olmi. Limpido, semplice, efficace a tratti con le immagini; più in difficoltà con le parole e i dialoghi che scrive lui stesso. Sia le une che gli altri si ispirano a un linguaggio di buone intenzioni, vincolato a una onesta retorica che suona scontata, prevedibile.

Forse per raccontare gli immigrati dentro una chiesa, il prete che chiede a dio risposte che non verranno, in una realtà che conosciamo e ci insegue ogni giorno attraverso i media, c’è bisogno di parole diverse, più decantate, più profonde e inedite. Si resta così, lì davanti a fatti e personaggi col cuore in gola, gli occhi pieni o mezzo pieni, le orecchie un poco assenti.

Difficile oggi per il cinema toccare un tema come il razzismo e analizzare la difficoltà del mondo occidentale nel guardare e capire gli altri con la conoscenza di ciò che sono,di ciò che sentono. Lo dimostra la scelta del Mister Clergyman nella giornata della espiazione rispetto a disattenzioni o insensibilità: inserire “Cime tempestose”.

Come sappiamo “Cime tempestose” è un grande romanzo di una grande scrittrice, Emily , e Andrea Arnold è una giovane regista, brava, ma forse adeguata solo in parte alla scommessa. La storia di una famiglia di contadini che vive nelle montagne, tra le nebbie e la pioggia, e che si trova in casa (portato dal padre che morirà) un ragazzo di colore, ha tutte le caratteristiche di una metafora esemplare, come del resto propone Olmi con il suo “Villaggio di cartone” (gli imballaggi che sono i mattoni della capanna di Betlemme).

Tutto funziona nella messa in scena ma il buio è pesto, le morbosità fangose, le vendette sordide e violente; e il film non si stende nel linguaggio, il suo motore è inceppato dal freno a mano del saper vedere ma di non sapere andare al centro delle psicologie, delle reazioni che si creano, nelle motivazione dei personaggi. Il futuro è affondatoi nel presente, e nel passato. Lo spettacolo resta fermo e anche noi restiamo fermi, a bocca solo semibagnata.

Il reverendo monaco buddista Muller alza gli occhi al cielo e pensa: vi ho offerto, cari spensierati e viziati festivalieri, una giornata di esercizi spirituali dopo la star Madonna, dopo il sesso a go go di “Shame”, dopo lo spettacolo della mediocrità senza spazi di “Carnage” di Polanski e i deliri esistenziali, psicanalitici, erotici di “A Dangerous Method”. Con un saluto: “Andate in pace e pregate affinchè io possa continuare ad essere il direttore della Mostra”.

Nelle foto: sopra Ermanno Olmi – foto di Kash GTorsello – sul set de “Il villaggio di cartone” e sotto un frame da “Wuthering Heights” di Andrea Arnold.

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