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Il Principe del Deserto: recensione in anteprima del film di Jean-Jacques Annaud

Cineblog recensisce in anteprima per voi Il principe del deserto, ultimo film del regista francese Jean-Jacques Annaud

pubblicato 15 Dicembre 2011 aggiornato 1 Agosto 2020 05:53

Entrare in mondi oramai sommersi e farsi travolgere dalla loro forza: questa è sempre stata l’aspirazione di Jean-Jacques Annaud. Che si tratti dell’Africa all’epoca della Prima Guerra Mondiale (Bianco e nero a colori), di un’Abbazia benedettina nel Medioevo (Il nome della rosa), oppure ancora di un grizzly nelle zone montuose del Canada di fine ‘800 (L’orso), il comune denominatore che lega la maggior parte delle sue opere è il tentativo di immergere in un contesto.

Il Principe del Deserto non esula da tali premesse. Tratto da un romanzo di Hans Ruesch, Paese delle ombre corte, il film si svolge a cavallo tra gli anni ’20 e ’30 del secolo scorso. Siamo in un’Arabia ancora divisa tra molte fazioni. Due, in particolare, quella di Nesib (emiro di Hobeika) e quella di Amar (sultano di Salmaah), si contendono la cosiddetta Striscia Gialla. Zona di confine e terra di nessuno, più che di una contesa è bene parlare di differenti vedute.

Per colmare questo gap, appianando ogni incomprensione, l’accordo raggiunto dai due sovrani è il seguente: Amar (Mark Strong) consegna i propri figli in custodia permanente a Nesib (Antonio Banderas). Quest’ultimo, in cambio, s’impegna a non fare guerra per l’appropriazione di questa sconfinata distesa di terra. I due crescono senza alcun problema, ognuno assecondando la propria indole. Saleeh anela alla vita da guerriero, mentre il fratello più piccolo, Auda, coltiva velleità da studioso. Finché la loro gabbia dorata non muta in ciò che è realmente: una prigione politica.

Molteplici sono le questioni sollevate da Annaud in questo film. Tutte però sembrano convergere nello scontro tra la modernità e un mondo, come quello arabo di inizio XX secolo, ancora fortemente ancorato alla tradizione. A gettare la bomba che sconquassa qualsivoglia equilibrio, presunto o meno, è l’avvento di un petroliere texano, il quale fa notare a Nesib che sotto i suoi piedi scorrono fiumi di petrolio.

Eccola qui, la modernità galoppante, irrompere nelle esistenze di una popolazione avulsa a quella che un tempo si usava definire civiltà occidentale. Peccato che l’unica “cultura” che lo speculatore straniero porta con sé è quella del denaro. Denaro facile, tanto che Nesib, di tutta prima, non comprende nemmeno la portata della cosa. L’utilizzo che la gente del luogo ha sempre fatto del petrolio è quasi ridicola in confronto alle promesse di ricchezze, gloria e prosperità ventilate dall’avido forestiero.

Insomma, già all’epoca si tentava di iniziare certe popolazioni alla “democrazia”, che sarà il principale materiale d’esportazione a partire da qualche decennio dopo. Porre le basi di un mondo che esalta valori che non appartengono a certe culture. E’ l’eterna tentazione alla quale l’uomo è condannato, e dalla quale non può sottrarsi – non in termini di influenza, quantomeno. In tal senso Annaud è furbo e non prende posizione. La panoramica sul mondo che intende mostrare è per di più descrittiva, fuggendo certi giudizi di merito – anche se è innegabile la visione positiva di quel mondo, che qui viene molto rivalutato rispetto alla vulgata corrente.

Certo, determinati passaggi sono ineludibili, quindi non si può glissare sul fatto che la guerra tra Amar e Nesib venga scatenata proprio dall’avidità di quest’ultimo, il quale intende sfruttare la Zona Gialla perché abbondante di petrolio. Da allora ha inizio tutta una serie di mosse e contromosse, dal tono smaccatamente politico, che porterà all’inevitabile guerra tra le due città.

Il regista francese si rivede in quel giovane trasognante, Auda, che dalla poesia dei libri passerà alla tragedia della realtà. Un romanzo dentro il romanzo, quest’ultimo. Di formazione, per giunta. Senza stare qui a descrivere le dinamiche di come si dipana la trama, è proprio Auda quel principe del deserto che deve ristabilire l’ordine, riportando equilibrio in un lembo di terra martoriato da una guerra che sembrava attendere solo un piccolo pretesto per mettersi in moto.

Ed il registro adoperato da Annaud è quello, per certi aspetti archetipo, della favola. Si avverte quell’atmosfera da Mille e una notte: quei paesaggi profondamente arabi, impregnati di quell’orientalismo tanto celebrato da molti poeti europei del XVIII e del XIX secolo. Per restare al cinema, è chiaro che il rimando più immediato è quello a Lawrence d’Arabia di David Lean, collegamento però smentito, almeno in parte, dallo stesso autore – secondo cui era inevitabile scontrarsi con una così blasonata pellicola proprio per via dell’ambientazione.

Ma che si tratti di film a conti fatti diversi è evidente. Paragoni a parte, Il principe del deserto costruisce un percorso che cerca di dare un senso alla genesi di un cambiamento epocale per il mondo arabo. Mondo già all’epoca piuttosto eterogeneo, ma le cui differenze e divisioni forse non sono mai state così marcate come oggi. In più, la pellicola rappresenta anche uno sguardo, a nostro parere più veritiero (seppur chiaramente incompleto), sul mondo islamico. A suggerircelo sono alcune dispute teologiche appena accennate, talvolta in tono serioso, altre in maniera decisamente più soft. Le differenze tra un mondo che ci crede, ed un altro che dice di crederci senza esserne troppo convinto.

Eppure il processo sembra inarrestabile, e mentre i tiepidi si adeguano, ai fedeli non resta che intravedere, magari profetizzandolo, un futuro in cui la loro realtà cambierà in maniera irrimediabile. Il film, sotto questo specifico aspetto, parla anche attraverso i costumi. Ci mette poco Nesib ad indossare gli sfarzosi abiti militari da integerrimo sovrano, dittatore involontario al soldo delle proprie aspirazioni. Non abbandona Amar – anzi, gli esalta – gli abiti che lo hanno cresciuto, in tutti i sensi. Il passaggio di testimone ad Auda è non a caso contrassegnato dal dono di un capo di vestiario.

Peccato che il film proceda su binari che non sempre riescono a restituirci la magia del contesto. La trama è spesso e volentieri prevedibile, cosa del tutto lecita in una cornice che esalta altre componenti che non quelle dell’imprevedibilità narrativa, ma che a lungo andare rischia di remare contro la tanto agognata immedesimazione. Buone tutte le interpretazioni, ma il personaggio di Banderas rimane forse un po’ troppo ancorato allo stereotipo del ‘cattivo’ dal cuore tenero, finendo con lo stemperare eccessivamente certe situazioni che forse avrebbero reso di più se avessero virato un po’ di meno sulla commedia.

Mark Strong, invece, ci è parso decisamente all’altezza nei panni di Amar. Qualcuno si è lamentato del fatto che fosse inglese, ma a ben vedere non ci pare che la cosa abbia pesato più di tanto. Bene pure Tahar Rahim, protagonista di quel Il Profeta che tra il 2009 e il 2010 ha riscosso un enorme successo. Anche Freida Pinto ci mette del suo, dandosi ad un’interpretazione sicuramente più di spessore rispetto a quanto visto ne L’alba del pianeta delle scimmie.

Tirando le somme, se ci chiedessero quale sia l’esito di questa nuova avventura offertaci da Annaud, cercheremmo di essere equilibrati. L’incipit ha un suo fascino, così come il finale, aperto, duro e tutt’altro che conciliante. Tuttavia l’impressione è che certe storie, a prescindere dal fatto che siano reali, rendano di più su carta che su pellicola. Pur apprezzando i toni de Il principe del deserto, bisogna ammettere che talvolta sfugge l’incisività con cui certe pagine di un libro possono trattare certi episodi. E’ un po’ l’annosa questione tra letteratura e cinema, dibattito che ci guardiamo bene dall’intraprendere per una miriade di motivi – non ultimo, non abbiamo letto il libro.

Stando alle sensazioni, però, alla fine della visione sembra mancare qualcosa. Forse dei tempi troppo diluiti, oppure un andamento che, per quanto piacevole, non restituisce in toto la potenza dei fatti narrati. Se traspare un po’ d’amarezza, dunque, è solo perché abbiamo l’impressione che un film del genere avrebbe potuto meritare parecchio di più rispetto a quanto siamo quasi costretti a riconoscergli. Il che non si riduce, come sempre, ad un semplice numero.

Voto di Antonio: 6,5

Il Principe del Deserto (Black Gold – Francia, 2011). Di Jean-Jacques Annaud. Con Tahar Rahim, Antonio Banderas, Mark Strong, Freida Pinto, Riz Ahmed, Akin Gazi, Liya Kebede, Corey Johnson, Eriq Ebouaney, Jan Uddin, Driss Roukhe e Ziad Ghaoui. In uscita nelle nostre sale il 23 Dicembre. Qui il trailer italiano.