Home Torino Film Festival Parole Povere: Francesca Archibugi e Pierluigi Cappello, tra cinema, poesia e identità

Parole Povere: Francesca Archibugi e Pierluigi Cappello, tra cinema, poesia e identità

Lei è Francesca Archibugi, lui Pierluigi Cappello. “Parole povere” è la poesia che ha avvicinato lo sguardo di una regista alle parole di un poeta, distillando un racconto che profuma di identità, portato sul grande schermo da Tucker Film.

di cuttv
pubblicato 30 Gennaio 2014 aggiornato 31 Luglio 2020 04:56


E io dico che mi piace la parola amen
perché sa di preghiera e di pioggia dentro la terra
e di pietà dentro il silenzio
ma io non la metterei la parola amen
perché non ho nessuna pietà di voi
perché ho soltanto i miei occhi nei vostri
e l’allegria dei vinti e una tristezza grande.

Lei è Francesca Archibugi, lui Pierluigi Cappello. Parole povere, una poesia che ha avvicinato lo sguardo di una regista alle parole di un poeta per un racconto che profuma di identità, portato sul grande schermo da Tucker Film.

Le è la regista romana sopra le righe e oltre le storie, da Mignon è partita a Questioni di cuore, da Il Grande cocomero a L’Albero delle pere, che usa la poesia come antidoto ad ansia e noia

«Mi serve avere un libro di poesia contemporanea sul comodino, perché è il più forte antidoto contro l’ansia e la noia. Mi sono avvicinata a Pierluigi quando è diventato, appunto, il mio compagno di comodino. Non ci conoscevamo, eppure eravamo già intimi…»

Lui è il bambino che amava la matematica e la fisica perché sognava di volare, l’adulto che non cammina più, sopravvissuto ad anni di ospedale con la letteratura, tornato alla vita inseguendo i fili di parole portati lontano da una poesia.

Il Pierluigi Cappello, ben noto al ristretto gruppo di amanti della poesia contemporanea, tornato in libreria di recente con “Azzurro elementare. Poesie 1992-2010” edito da BUR, con la prefazione di Francesca Archibugi.

L’autore della poesia (in fondo alla segnalazione) che da nome a questo incontro tra immagini e parole, cinema e poesia, l’amore per le parole e la cultura che ti cambia la vita, in viaggio tra patria e orizzonte, origini e nuove prospettive, avviluppate alla precarietà di un verso, e l’eternità delle emozioni.

Un gioco di parole e dissolvenze, inquadrature sottratte al ricordo e immagini fissate nella memoria comune, senza leggerezze e parecchia soavità, una regia senza sceneggiatura, per due ‘sguardi’ affini.

«Abbiamo lavorato senza una sceneggiatura, in verità non sapevo nemmeno cosa fare. Io e Pierluigi condividiamo la stessa attività, guardiamo le persone, è il nostro sport, non mi stancherei mai di farlo. I suoi versi sono pieni di persone, raccontati anche solo con una frase.»

Un film nato per caso (tra compagni di comodino), che si avventura dietro le parole di Cappello, accompagnata dal quintetto jazz di Battista Lena (marito della Archibugi), riprese durante una lettura di lettura di poesie del 2012 al “Mittelfest” di Cividale del Friuli, nei luoghi dell’infanzia con le immagini in bianco e nero che sanno di tradizioni, la pasta al tonno della mamma, l’ingenuo comunismo del padre, il boato e le macerie del terremoto del 1976, l’arrivo dell’autostrada …

«Le radici friulane e le testimonianze divertite degli amici. I luoghi e i ricordi. L’ombra scura del 1976 e il profilo verde delle montagne. La sedia a rotelle che spezza la libertà di un sedicenne e disegna, millimetro dopo millimetro, la libertà di un uomo. Di un poeta. Di un guerriero mite e gentile che abita «fra l’ultima parola detta e la prima nuova da dire».

Parole Povere, sorprendenti come la poesia di Pierluigi Cappello e il cinema di Francesca Archibugi, un documentario che scrive ma non descrive, passato dal Torino Film Festival (nella sezione E intanto in Italia), fuori concorso al 25° Trieste Film Festival, distribuito da Tucker Film.

Parole Povere poster

Parole povere
Uno in piedi, conta gli spiccioli sul palmo
l’altro mette il portafoglio nero
nella tasca di dietro dei pantaloni da lavoro.

Una sarchia la terra magra di un orto in salita
la vestaglia a fiori tenui
la sottoveste che si vede quando si piega.

Uno impugna la motosega
e sa di segatura e stelle.

Uno rompe l’aria con il suo grido
perché un tronco gli ha schiacciato il braccio
ha fatto crack come un grosso ramo quando si è spezzato
e io c’ero, ero piccolino.

Uno cade dalla bicicletta legata
e quando si alza ha la manica della giacca strappata
e prova a rincorrerci.

Uno manda via i bambini e le cornacchie
con il fucile caricato a sale.

Uno pieno di muscoli e macchie sulla canottiera
Isolina portami un caffé, dice.

Uno bussa la mattina di Natale
con una scatola di scarpe sottobraccio
aprite, aprite. È arrivato lo zio, è arrivato
zitto zitto dalla Francia, dice, schiamazzando.

Una esce di casa coprendosi un occhio con il palmo
mentre con l’occhio scoperto piange.

Una ride e ha una grande finestra sui denti davanti
anche l’altra ride, ma non ha né finestre né denti davanti.

Una scrive su un involto da salumiere
sono stufa di stare nel mondo di qua, vado in quello di là.

Uno prepara un cartello
da mettere sulla sua catasta nel bosco
non toccarli fatica a farli, c’è scritto in vernice rossa.

Uno prepara una saponetta al tritolo
da mettere sotto la catasta e il cartello di prima
ma io non l’ho visto.

Una dà un calcio a un gatto
e perde la pantofola nel farlo.

Una perde la testa quando viene la sera
dopo una bottiglia di Vov.

Una ha la gobba grande
e trova sempre le monete per strada.

Uno è stato trovato
una notte freddissima d’inverno
le scarpe nella neve
i disegni della neve sul suo petto.

Uno dice qui la notte viene con le montagne all’improvviso
ma d’inverno è bello quando si confondono
l’alto con il basso, il bianco con il blu.

Uno con parole proprie
mette su lì per lì uno sciopero destinato alla disfatta
voi dicete sempre di livorare
ma non dicete mai di venir a tirar paga
ingegnere, ha detto. Ed è già
il ricordo di un ricordare.

Uno legge Topolino
gli piacciono i film di Tarzan e Stanlio e Ollio
e si è fatto in casa una canoa troppo grande
che non passa per la porta.

Uno l’ho ricordato adesso adesso
in questo fioco di luce premuta dal buio
ma non ricordo che faccia abbia.

Uno mi dice a questo punto bisogna mettere
la parola amen
perché questa sarebbe una preghiera, come l’hai fatta tu.

E io dico che mi piace la parola amen
perché sa di preghiera e di pioggia dentro la terra
e di pietà dentro il silenzio
ma io non la metterei la parola amen
perché non ho nessuna pietà di voi
perché ho soltanto i miei occhi nei vostri
e l’allegria dei vinti e una tristezza grande.
Pierluigi Cappello

Via | Facebook Tucker FilmPierluigi Cappello Facebook

Torino Film Festival