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12 anni schiavo: Recensione in Anteprima del film di Steve McQueen

A tre anni dall’acclamato Shame, Steve McQueen torna dietro la macchina da presa con un cast d’eccezione per 12 anni schiavo. Non solo Fassbender dunque, per una cruda storia di schiavitù negli Stati Uniti di due secoli fa

pubblicato 29 Gennaio 2014 aggiornato 31 Luglio 2020 04:43

Schiavitù. Gira che ti rigira è sempre lì che Steve McQueen è andato a parare. Anche stavolta, dopo le sue due prime, folgoranti opere, il regista britannico non abbandona la tematica; anzi la coglie nella sua implicazione più immediata e riconoscibile, quella che non parla di dipendenze o battaglie politiche, bensì la schiavitù per eccellenza. Quella esercitata da un uomo su un altro uomo.

Una sfida inizialmente inusuale per McQueen, che ci stava abituando a contesti più atipici, lungo le strade di sentieri decisamente meno battuti. In Hunger un uomo che si dà alla fame per sé e per la libertà della propria gente; in Shame uno newyorkese rampante alle prese con il suo travagliato rapporto col sesso. In 12 anni schiavo a far capolino è la storia vera di Solomon Northup (un bravo Chiwetel Ejiofor), nero nato libero ma successivamente raggirato e reso schiavo, condizione dalla quale è uscito, per l’appunto, dopo una dozzina di anni.

Probabilmente un cambio di registro così sensibile tende tutt’oggi a lasciare perplessi, quantomeno dubbiosi, anche (o forse soprattutto, nel caso di alcuni) alla luce delle ben 9 nomination ai prossimi Oscar. Eppure, al di là dell’innegabile spostamento, McQueen c’è e si vede. Un McQueen che però qui è più in prestito che altro: una voce di assoluto peso nell’economia del film, sebbene contenuta rispetto ai suoi precedenti lavori. Tuttavia suo non è semplicemente il colpo d’occhio, quel taglio attento all’impatto visivo prima di tutto. No. Si nota che la sceneggiatura, scritta da John Ridley, è in fondo cucita addosso al cineasta inglese. Quest’ultimo la adatta il più possibile al proprio stile, attraverso scelte ponderate ma non tutte completamente incisive.

Il ritmo per lo più molto pacato è a brevi tratti interrotto da interventi improvvisi, netti, come in passato. Ciò di cui qui si avverte maggiormente la mancanza è quella encomiabile abilità di McQueen nello spogliare la scena di qualsivoglia orpello per andare dritto al cuore del potenziale emotivo della stessa. Per carità, in alcuni punti ci riesce pure, ed è tutta bravura sua. Non una serie di intollerabili frustate, né dei figli malamente strappati alla madre. A McQueen basta un’inquadratura, semplice, talvolta addirittura “banale” come un primo piano con la macchina da presa all’altezza del torace. Perché a questo regista non solo piacciono non poco le lunghe inquadrature, ma in più sa servirsene in maniera eccezionale. Senza mai abusarne. Così quando te la tiene su un Solomon appeso al ramo alto di un albero come un salame per circa un minuto sei lì ad immaginarti un tempo ideale entro il quale terminarla; e dopo essere stato attraversato da svariate sensazioni, man mano acuite proprio dalla violenta durata, ecco che McQueen la interrompe nell’istante perfetto.

Il punto è che in un film come 12 anni schiavo c’è da aggrapparsi per lo più a misure come queste. Perché il resto si attesta su un livello a dire il vero meno eccellente, non importa quanto certi picchi di crudo realismo colpiscano come uno schiaffo estemporaneo. D’altra parte risulta davvero arduo non provare sdegno per certi trattamenti, che non di rado sfiorano il sadismo. In tal senso, però, il merito è ancora una volta di colui che siede in cabina di regia se il film non sfocia nella gratuità, sulla cui soglia si muove costantemente in ogni caso. Gli argini posti funzionano, nonostante oltre al ribrezzo o alla rabbia per un episodio specifico non si riesce ad andare. Non è difficile empatizzare con Solomon e tutti coloro che condividono il suo stesso, triste destino, ma per noi che da certe situazioni siamo talmente avulsi non resta che una distaccata compassione.

Che i dodici anni vissuti da schiavo non siano stati una passeggiata è di per sé evidente. Né lasciano indifferenti le vicissitudini alle quali il protagonista ha dovuto far fronte. Ma se restiamo all’argomento, poco o nulla viene aggiunto quanto a sostanza. Non si trattava di inventare alcunché o eccedere ulteriormente nel romanzare una storia di per sé già forte e che perciò si presta, quanto piuttosto nell’immergerci ancora di più in quell’inferno. Ma forse non è mai stato questo l’intento di McQueen, che in una tematica così celebrata ha trovato uno scoglio non da poco.

Se noi osserviamo attentamente tanto Hunger quanto Shame scorgiamo più o meno con chiarezza la matrice di entrambe, ossia l’universalità di certe condizioni attraverso storie specifiche. Dal particolare al generale, senza approntare speculazioni ardite o producendosi in voli pindarici di sorta. In Bobby così come in Brandon c’è un po’ di noi; stesso dicasi per i personaggi che orbitano attorno a loro. In 12 anni schiavo non si poteva fare a meno di procedere all’inverso, ossia dal generale al particolare, partendo dalla pagina storica della tratta degli schiavi di colore alla storia di uno di loro, che diversamente dalla maggior parte di questi era nato in condizioni di libertà, riconquistandola di nuovo successivamente.

Qualcosa si perde in questo cambio di prospettiva, forse anche perché i contorni sono decisamente più netti, nitidi, e sin da principio ci è dato sapere inequivocabilmente a chi rivolgerci se cerchiamo un cattivo anziché un buono o viceversa. Viene così in parte vanificata una delle peculiarità essenziali di questo regista, che in fatto di sfumature ci sa parecchio fare. Qui invece abbiamo un detestabile Michael Fassbender, la cui prova è però da Oscar senza se e senza ma. Aria sarcasticamente beffarda, il suo Edwin Epps è un indemoniato che alterna la lettura dell’Antico Testamento alle tremende scudisciate sulla schiena; fuori controllo, talvolta al di là della morale perché talmente addentro nella sua perversità dal farci sospettare che in fondo lui creda davvero nella giustezza delle sue azioni. E se il suo personaggio è praticamente l’unico a godere di una certa profondità è senz’altro merito di Fassbender, il quale però qualche cosa dovrà pure riconoscerla al suo compagno di giochi McQueen, con cui il sodalizio prosegue magnificamente.

Ma la narrazione è anche costellata di passaggi. Fugaci ma non meno significativi. Personaggi che entrano ed escono nel giro di poche scene, ma la cui presenza fa pendere l’ago della bilancia verso un tenore anziché un altro. Così è col cinico Theophilus Freeman (Paul Giamatti) o col perfido John Tibeats (Paul Dano), oppure ancora col William Ford di Benedict Curmberbatch o la Harriet Shaw di Alfre Woodard. Ciascuno di loro assume un peso specifico, anche se più in relazione al dipanarsi della trama che altro. Forse il padron Ford e la signora Shaw servono a dirci qualcosa in più, ad allargare la portata di un messaggio che si sa esponenzialmente più complesso di ciò che vediamo. O forse anche questi stanno lì per far sì che si possa passare all’evento successivo, chiavi di volta affinché la trama semplicemente prosegua.

Ciò evidenziato, se il tutto si mantiene su territori di un certo rilievo è praticamente grazie a Steve McQueen. Non osiamo infatti nemmeno immaginare cosa ne sarebbe venuto fuori da una storia di questo tipo se in mano l’avesse avuta qualcun altro. McQueen invece riesce ad impreziosirla conferendole uno spessore che è raro, se non altro perché un suo stile ce l’ha e sta sempre più acquisendo esperienza sul come maneggiarlo. Un dominio, come già scritto, osteggiato a priori ma che fa in tempo a manifestarsi mediante più elementi, come il già citato montaggio o certi brani senz’altro in linea con la sua poetica. Qualcosa che entro una certa misura funziona ma da cui, specie ai titoli di coda, si capisce che non si poteva trarre più di quanto non sia stato tratto. McQueen ha spremuto fino all’osso quanto c’era da prendere da 12 anni schiavo ed il risultato non è certamente disprezzabile, anzi degno di un regista di cui già adesso si attende con estremo interesse la sua quarta fatica.

Voto di Antonio: 6
Voto di Gabriele: 6

12 anni schiavo (12 Years a Slave, USA, 2013) di Steve McQueen. Con Chiwetel Ejiofor, Michael Fassbender, Benedict Cumberbatch, Paul Dano, Paul Giamatti, Lupita Nyong’o, Sarah Paulson, Brad Pitt, Alfre Woodard, Scoot McNairy, Taran Killam, Garret Dillahunt, Michael K. Williams, Quvenzhané Wallis, Ruth Negga, Bryan Batt, Chris Chalk, Dwight Henry, Anwan Glover, Marc Macaulay e Mustafa Harris. Nelle nostre sale da giovedì 20 febbraio.