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Ida: Recensione in Anteprima del film di Pawel Pawlikowski

Nella Polonia dei primi anni ’60 il percorso di una giovane alla ricerca del proprio passato e perciò del suo futuro nel duro ma suadente Ida di Pawel Pawlikowski

pubblicato 10 Marzo 2014 aggiornato 31 Luglio 2020 03:33

«E poi?». Non appena Anna pronuncia questa semplice domanda non si hanno dubbi: da qui passa la forza della sua storia. Non solo. Con quelle due semplici parole, che pesano come un macigno, la giovane non interroga soltanto il suo diretto interlocutore, bensì, per la prima volta, chiama in causa direttamente lo spettatore. Con un’innocenza atipica, di chi in fondo sa già la risposta ma non ne fa un motivo di vanto. Anna guarda la realtà, quale che sia, dritta negli occhi e la incalza, come se avesse intuito quello strano ancorché fascinoso meccanismo dal quale è eroico riuscire a districarsi senza venirne stritolati.

Siamo in Polonia, 1962. Sebbene la Guerra sia oramai un triste e lontano ricordo, buona parte di coloro che le sono sopravvissuti portano sulla propria pelle cicatrici che forse mai si rimargineranno. È anche un periodo di enormi cambiamenti, «epocali» direbbe qualcuno; il mitico ’68 è di lì a venire e già in quegli anni chiaramente se ne scorgono le prime avvisaglie. Un mondo dunque a cavallo tra due epoche, diametralmente opposte. In questo punto s’inserisce una tappa fondamentale del percorso di Anna, novizia presso un convento di suore, in attesa di prendere i voti. Dato l’approssimarsi di quell’evento, la madre superiora svela alla ragazza di avere ancora una parente, e che è bene per lei incontrarla prima di consegnarsi definitivamente a Cristo. Si tratta della zia Wanda, una donna che vive agli antipodi rispetto alla ben più riservata e se vogliamo austera nipote.

Nonostante qualche incertezza iniziale, la giovane orfana accetta l’idea di quest’incontro, recandosi dalla disinvolta nonché unica parente rimastale. Quanto scoprirà di lì a poco le cambierà la vita una volta per tutte: Anna in realtà si chiama Ida ed è ebrea. Ancora piccolissima fu affidata ad un convento, lo stesso presso cui vive fino a quel momento. A dispetto della logica diffidenza da entrambi i lati, le due si ritrovano ad essere unite da un mistero, ossia scoprire cosa avvenne con esattezza ai genitori di Anna e perché lei fu lasciata in quel convento. Ma il tutto è un po’ più complesso di così, andando ben oltre un mistero che c’è ma che è solo un pretesto per mostrare qualcosa di ben diverso.

Pur non avendo affatto in odio le convenzioni, Pawlikowski opera delle modifiche sostanziali a certi elementi “tradizionali”. Il suo ha tutta l’aria di essere il classico film europeo d’autore, contraddistinto da inquadrature fisse, lunghi silenzi, assenza di una vera e propria colonna sonora o atmosfere per lo più cupe. Tutte misure che ritroviamo pienamente in questo suo ultimo lavoro, al quale però apporta dei ritocchi che fanno la differenza. Da subito, per esempio, avvertiamo una delle forme di “ribellione” più evidenti, ossia la rottura di ogni “regola” base relativa all’inquadratura. I personaggi, specie nella prima parte del film, sono sempre disposti ai lati dell’immagine, oppure lo spazio sopra le loro teste è vistosamente eccessivo e, per così dire, “fuori posto”.

Il regista polacco dà però al tempo stesso l’idea di aver maturato tali scelte in maniera coscienziosa, perché i suoi non sono affatto meri espedienti stilistici. Qualcuno diceva che nell’arte è sempre bene seguire quelle regole che si possono anche infrangere, purché se ne abbiano dei motivi più che validi. Pawlikowski ce li ha eccome, solo che tutto passa attraverso quel non verbale che è costituito da certe sensazioni, da quel senso di spaesamento nell’osservare certe immagini così atipiche. E per farlo gli è bastato “semplicemente” spostare l’inquadratura di un soggetto o di certi soggetti, misura che denota ben altro. Il trattamento riservato alla forma, infatti, assume un senso in relazione al modo in cui vengono maneggiati i contenuti.

In Ida non si indugia mai un istante di troppo sui singoli eventi, per quanto rilevanti essi siano. Pawlikowski va incasellandoli uno dopo l’altro senza porre alcuna enfasi su quelli chiave, dissimulando un disinteresse che in realtà non gli appartiene affatto. Tale impressione la si ricava alla luce del difficile equilibrio che eppure egli raggiunge tra il mero mostrare, tipico del documentario duro e puro, e quello di mettere in risalto, più attinente alle opere di finzione. In Ida una concreta scrematura avviene ed è tangibile, solo che i vari episodi, a differenza di un film qualunque, semplicemente “accadono”. In questo abile bilanciamento circa il metodo di narrazione il regista riesce, di conseguenza o forse proprio per questo, a restituirci immagini tutt’altro che complesse ma al tempo stesso dalla forte impronta evocativa. All’interno di un contesto per lo più cupo, a tratti asfissiante, lavorando con e su pochi ingredienti.

Ottanta minuti in cui il rigore di un certo tipo di cinema viene svecchiato da una serie di soluzioni che forse non alleggeriscono in modo netto il film, il quale però ne guadagna in profondità ed accessibilità; perché, checché se ne dica, Pawlikowski gira un film tradizionale in modo moderno. Ed è chiaro che il nostro discorso riguarda la forma, perché quanto alla trama certi discorsi lasciano il tempo che trovano. Per dare ragione di ciò ci siamo poco sopra rifatti allo stile visivo di Ida, forte, a suo modo “innovativo” proprio perché stravolge certe regole inerenti non solo al cinema classico bensì al cinema a 360°. Come quando, proprio in chiusura, dopo aver adoperato solo inquadrature fisse le più svariate, il film si congeda con un non lunghissimo piano sequenza con macchina a mano, assumendo un significato ben specifico e dai risvolti notevoli.

Certe argomentazioni si potrebbero in qualche modo estendere anche al trattamento della colonna sonora, sorprendentemente centrale in un film che non disdegna il suono ma che al tempo stesso ricorre alla musica con un certo pudore. Anche qui però, Pawlikowski fa di testa sua e fa bene: la campionatura di brani jazz ha un suo fascino e ad un certo punto del film muove letteralmente la trama, discretamente, senza mai sovrapporsi più di tanto alla narrazione, invece agevolandola. Tutto ciò in linea con quanto già evidenziato, ossia che pressoché ogni scelta in Ida è ponderata. Ed è questa la vera forza del film, cioè l’abilità grazie alla quale si riesce a raccontare una storia il cui impatto dipende quasi esclusivamente dal modo attraverso cui viene veicolata.

Il tutto, chiaramente, senza nulla togliere a quel sofferto percorso di Anna/Ida, con quel tema del doppio palesemente svelato verso la fine e magistralmente approfondito attraverso due sequenze speculari. La prima è quella in cui zia e nipote attraversano all’interno di un auto un viale alberato oltre il quale c’è la luce; la seconda è anche l’ultima del film, quando Anna, sola, percorre una strada simile camminando però verso il senso opposto. Eh sì, Ida si muove su questi binari, tuttavia restituendo almeno altrettanto rispetto a quello che domanda. Lo diciamo a chi magari si dichiara poco avvezzo a certe opere. Vale la pena tentare. Ancora una volta.

Voto di Antonio: 8
Voto di Gabriele: 8

Ida (Polonia, 2013) di Pawel Pawlikowski. Con Agata Kulesza, Agata Trzebuchowska, Joanna Kulig, Dawid Ogrodnik, Adam Szyszkowski, Jerzy Trela e Halina Skoczynska. Nelle nostre sale da giovedì 13 marzo.