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Anime nere: Recensione in Anteprima

Anime nere è il primo film italiano in Concorso mostrato al Festival di Venezia 2014. Francesco Munzi ci porta nel cuore della Calabria, sondando l’oscurità di questa terra a molti sconosciuta. E con un finale micidiale, quasi liberatorio

pubblicato 30 Agosto 2014 aggiornato 30 Luglio 2020 22:44

L’Italia in Concorso alla Mostra di quest’anno parte dalla Calabria, passando per Milano. Una storia dura, che sfiora la malavita. Di nuovo. Il cinema italiano degli ultimi anni ha mostrato una certa predilizione per queste tematiche, anche se poi uno dei migliori, Salvo, altrove viene osannato mentre da noi arranca (ed è dire poco). C’est la vie. Francesco Munzi però la storia di Anime nere, che in origine è un romanzo di Gioacchino Criaco, vuole raccontarla comunque; e per alcuni versi è un bene che l’abbia fatto.

Il suo non è un noir, non un gangster-movie ed in fondo nemmeno un film su una delle svariate cosche nostrane. No, Anime nere è un po’ di tutte queste cose, benché il respiro sia quello dell’opera tendenzialmente autoriale, che non ha timore ad indugiare su silenzi, panorami e primi piani – ed in fondo se non le fanno vedere a un Festival certe cose, dove altro?

In un paesino sperduto nell’Aspromonte una famiglia di pastori si sfalda; due dei tre fratelli, Rocco e Luigi, si trasferiscono a Milano, mentre Luciano rimane, solo, a condurre la stessa vita del padre, lavorando la terra ed occupandosi del bestiame. C’è qui un primo indizio, o se vogliamo una prima coordinata, che è proprio di carattere spaziale. Rocco e Luigi si recano infatti a Nord per ampliare il loro giro d’affari illeciti, business che non a caso procede a gonfie vele. Luciano, il più grande dei tre, deplora la vita che i suoi fratelli si sono scelti, ed il suo dissenso sdegnoso passa da una condotta costantemente ostile, restia anche solo ad appoggiare i traffici loschi dei fratelli. Il destino di Anime nere, che ha inizio lontano dalle terre calabre, reca scritto a chiare lettere sin dalle prime battute in quale luogo dovrà consumarsi il dramma che contempla; e quale che sia tale luogo, di certo ha a che vedere con le origini dei suoi protagonisti.

È di vitale importanza comprendere questo passaggio, perché il film si sofferma proprio sulla tremenda inquietudine di chi vive a metà strada tra tutto ciò che lo ha formato in opposizione a ciò che si vorrebbe essere. Un limbo esistenziale angosciante, che va ricostruito un tassello dopo l’altro, specie nella seconda metà, interamente ambientata in Calabria. In questa fase specifica il film ripiega pericolosamente su sé stesso, rischiando di perderci. Rocco e Luigi sono costretti a tornare al Sud perché all’orizzonte si profila una guerra tra clan, ed il casus belli si è oramai palesato. Qui Munzi trascina il film un po’ per le lunghe, accantonando le emozioni e distillando gli eventi con molto placidità. Soluzione che ad ogni modo ha un suo perché, e per darne ragione basta ricorre a due scene in parallelo, quasi speculari tra loro.

Il film si apre con una trattativa che Luigi perfeziona all’estero: si tratta dell’accordo con un grosso trafficante di droga di origini ispaniche. La location è uno yacht. L’incontro, invece, dura appena pochi minuti. Giusto il tempo di qualche misurato botta e risposta e l’affare è concluso. Facciamo un discreto salto in avanti. La famiglia che sta cercando di ottenere la supremazia sul territorio sta subdolamente uscendo allo scoperto: Luigi, il più giovane e più irrequieto, coglie l’antifona e decide di recarsi in Calabria per sondare il terreno in previsione della possibile guerra. Ecco allora che i tempi si dilatano, così come le singole inquadrature, le sequenze. È la tipica tendenza di certi luoghi dell’entroterra meridionale: aspettiamo e vediamo che succede. E alla luce del contesto, di tutto può trattarsi fuorché di prudenza. Il figlio ventenne di Luciano, Leo, avverte il pericolo e preme affinché l’attacco venga sferrato al più presto. Ma gli zii non ne tengono conto: loro sono di un’altra generazione, avulsa dai ritmi vertiginosi della nostra epoca, che corre a una velocità disarmante.

Il resto lasciamo che siate voi a scoprirlo, anche se un’idea potreste già farvela. Fatto sta che il parallelo tra i due distinti momenti sopra citati ci aiuta a capire, o per lo meno a intuire, quanto il ritardo culturale possa incidere, e di fatto incida, sull’imporsi di un fenomeno culturale così complesso come quello della “malavita”, specie se locale. Luigi partecipa ad un gioco al quale oramai non sa più giocare, con tutti i rischi del caso. Non ci vediamo alcuna assoluzione da parte del film verso una cultura così irremediabilmente corrotta, quanto semmai un tentativo onesto di ampliare il discorso, andando al di là di presunte tare razziali. La cultura è ciò che conta, anche nell’ambito della stessa criminalità, che non dovunque funziona allo stesso modo. Il problema, sembra dirci Munzi (e forse ancor prima di lui lo scrittore del romanzo), va ricercato proprio lì, al cuore di una cultura che non fa prigionieri; tutti vittime e carnefici di loro stessi. Anime nere, per l’appunto, magari perché semplicemente vuote.

Voto di Antonio: 7
Voto di Federico: 7
Voto di Gabriele: 7

Anime nere (Italia, 2014) di Francesco Munzi. Con Marco Leonardi, Peppino Mazzotta, Fabrizio Ferracane, Barbora Bobulova, Anna Ferruzzo, Giuseppe Fumo, Pasquale Romeo, Vito Facciolla ed Aurora Quattrocchi. Nelle nostre sale da giovedì 18 settembre.