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Storm Children, Book One: Recensione del documentario di Lav Diaz

Milano Filmmaker 2014: il tifone Yolanda visto attraverso gli occhi di Lav Diaz. Ma soprattutto attraverso quelli dei bambini, veri protagonisti di Storm Children, Book One

pubblicato 4 Dicembre 2014 aggiornato 30 Luglio 2020 19:57

Esattamente un anno fa (o quasi: era novembre) si abbatteva sulle Filippine un tifone devastante, Yolanda. O Haiyan, come lo chiamano da quelle parti. Zone rivolte sottosopra, strade che diventano fiumi alti più di dieci centimetri, abitazioni divelte. E poi ci sono loro. I bambini. I veri protagonisti di questo documentario di Lav Diaz, come suggerisce il titolo stesso, sono proprio i più piccoli, quelli che più di tutti sembrano essere esposti ad una simile tragedia, ma le cui reazioni tradiscono la portata di un evento così catastrofico.

Qui Diaz conferma in maniera quasi violenta il suo cinema. Il che può sembrare un paradosso: violento un film costituito in gran parte da inquadrature fisse, dove apparentemente avviene poco o nulla? Esatto. Quello di Diaz, piaccia oppure no, è cinema allo stato puro. Il che desta una certa meraviglia pure a noi che scriviamo certe cose, un po’ per via della loro ripetitività, un po’ perché si tratta di un documentario. Eppure si fa presto a dire documentario.

Storm Children, Book One nasce probabilmente come tale, ossia un documento riguardo a ciò che sta succedendo da quelle parti. Ma in corso d’opera cambia forma, mutando in oggetto difficilmente ascrivibile ad un genere, un gruppo, una tipologia o che so io. La messa in scena, che è lì nel momento stesso in cui Diaz riprende l’azione, viene in qualche modo “ricostruita” a posteriori, in cabina di montaggio. Affermazione anch’essa bizzarra, perché di interventi in tal senso se ne vedono pochi. Nonostante ciò, però, se ne avvertono molti.

Quando due ragazzini scavano tra i resti e le macerie di una battigia, con a fianco una nave per metà posata innaturalmente sulla terra ferma, noi restiamo lì a guardare, non si sa bene cosa. Il teatro di devastazione generale diventa per loro un parco giochi a cielo aperto, per cui quella loro ricerca, in fin dei conti senza obiettivo, altro non è che parte di un gioco che i due giovani stanno conducendo con una scrupolosità ed un trasporto a loro modo didattici. Sì, perché insegnano a noi, «gente seria», che quando si è toccato il fondo, quando oramai sembra non esserci più alcuna speranza, non resta altro da fare che darsi alla cosa più sacra. Giocare.

Ora, macchina a mano, seguiamo un ragazzino che si fa strada lungo una via affollata. Gli sguardi dei passanti non si sforzano nemmeno di tradire un certo stupore per un tizio che li riprende, e continuano a farsi gli affari loro. Ad un certo punto, però, ecco un coro di vocine intonare quella che sembra… ma sì, è lei: Let It Go. Il brano di Frozen, da Oscar come lo stesso film Disney. Diaz le inquadra. Non si vedono bene. Eppure riusciamo a scorgere una coreografia; blanda, rudimentale. Ma di nuovo: è tutto un gioco. Dando peraltro ragione alle teorie bene espresse da Johan Huizinga e magnificamente sintetizzate nel titolo di una delle sue opere più famose, Homo Ludens.

Prima ancora, all’inizio del film, il regista resta per una buona mezz’ora, alternando tre inquadrature al massimo, sullo stesso punto. Siamo in città, e dei ragazzini raccolgono quella che ha tutta l’aria di essere spazzatura. Improvvisano un canotto, studiano ciò che la corrente restituisce loro corrotto. Tra loro non parlano; non ne hanno tempo, presi come sono dal portare avanti il loro gioco. Ed ancora una volta Diaz, dilatando i tempi e l’azione in modo esasperato, ci costringe a cogliere ciò che non sfugge al suo sguardo.

Per asciuttezza ed essenzialità, sebbene si tratti di due progetti distinti e separati, ci ricorda lo Stray Dogs di Tsai Ming-liang, passato dal penultimo Festival di Venezia, ed uscitone con un Gran Premio della Giuria. Sennò si potrebbe pure tornare a certo cinema europeo così attento a non concedersi alcun fronzolo, come quello di un Dreyer per esempio. Minimalismo in forma piena; ed anche se l’ossimoro è dietro l’angolo vale la pena rischiare per descrivere questo Diaz. Che non intende “sperperare” immagini forti come se niente fosse, nient’affatto, preferendo operare alla lunga, piazzando al momento opportuno quelle istantanee che, se ben viste, tolgono il fiato.

Sapere che questa è solo la prima di più parti (quante non si sa ancora) è per certi aspetti consolante; un cinema così oggi è sin troppo raro trovarlo, ed i motivi non ci vuole nulla a scovarli. Ma opere di questo tipo se ne ha bisogno. Come spettatori, pur non sapendolo, abbiamo necessità di lavori che tornino a farci ragionare sull’importanza del vedere, ma soprattutto del leggere attraverso le immagini. D’altronde quello che fa Diaz con Storm Children altro non è che un servizio fotografico, trasposto brillantemente in forma cinematografica.

Voto di Antonio: 9

Storm Children, Book One (Mga Anak ng Unos, Unang Aklat; Filippine, 2014) di Lav Diaz.