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Il teorema di Maccio Capatonda ed il suo “italiano medio” da tubo catodico

Chi è l’italiano medio di Maccio Capatonda? Dal web alla cinema, passando per la TV e la radio, un fenomeno trasversale di cui il film in uscita nelle nostre sale non rappresenta che l’ultima tappa. Per ora

pubblicato 23 Gennaio 2015 aggiornato 30 Luglio 2020 18:45

Poco meno di una settimana e nelle nostre sale troverete uno dei film più attesi dagli internauti nostrani, scritto, diretto ed interpretato (tutte e tre le cose con l’ausilio di altre persone) da Marcello Macchia, in arte Maccio Capatonda. Dopo alcuni buchi nell’acqua come l’esordio di Willwosh, e in fin dei conti anche quello di Paolo Ruffini – che sì era già noto in TV, ma che sulla rete muove i primi passi con gli irresistibili doppiaggi in livornese del Nido del Cuculo -, il vero fenomeno annunciato è Maccio dietro la macchina da presa.

L’esperimento di Italiano medio un giorno potrebbe offrire materiale sufficiente a certi programmi di cattedre istituite ad hoc per riempire discutibili corsi universitari; nel frattempo tentiamo noi un approccio, che senz’altro presenta delle asperità, precipitoso com’è. Siamo infatti del parere che l’impresa del signor Macchia abbia un suo perché al di là della riuscita in senso stretto del film, sulla cui resa, en passant, ci soffermeremo pure qui di seguito.

Un aspetto che, ad avviso di chi scrive, pare sia sfuggito, rischia di trasformarsi in uno di quegli equivoci di fondo: l’italiano medio di cui al titolo e al protagonista non è l’italiano tout court, come vorrebbero talune voci di corridoio; l’italiano medio è un prodotto di altra denominazione, che reca sulle chiappe un’origine specifica, ossia la televisione, venendo dritto dritto da lì. Chi avrà seguito, seppur distrattamente, il personaggio Maccio Capatonda dai tempi Abbagli (quanti guai in Paraguay!), oltre ad aver preso visione di almeno qualche intervista (come questa), saprà benissimo che il nostro è in tutto e per tutto figlio della televisione. La stessa su cui in questo suo film di debutto demonizza con fare satirico, a tratti sornione, non disdegnando cliché e affini: la TV è momento essenziale del percorso di Marcello Macchia.

Pensate al formato che l’ha reso famoso, o mediante il quale si è comunque imposto all’attenzione del pubblico, ovverosia i trailer. È vero, parliamo di un mezzo che la sala cinematografica ben conosce, per certi versi pure meglio e da più tempo; ma se si osserva con un pizzico di attenzione in più, si capisce che i trailer di Maccio sono pensati tenendo a mente quegli estemporanei inserimenti pubblicitari che da decenni passano sui nostri tubi catodici, oggi LCD o chi per loro. Parodiare il cinema attraverso colei che per lungo tempo è stata considerata la sua nemesi per eccellenza, la TV, servendosi però dell’immancabile terzo incomodo, internet. Un’intuizione geniale, che come tale non richiede spiegazioni esatte, ponderate.

Maccio è il prodotto di quanto questa scatoletta è stata in grado di generare nel corso degli anni, in particolar modo quelli a cavallo tra gli ’80 e i ’90; un rigurgito che, come quel figlio ribelle che anziché ritornare dal padre come nella parabola evangelica del prodigo, motteggia la madre da cui è stato abituato a suggere il latte durante tutto lo svezzamento (e pure oltre). La sua è sempre stata una critica decisamente arrabbiata, persino cattiva, il che può sembrare strano, dato che il nostro non è uno di quelli che fa scandalo. Maccio è il giullare che nel Re Lear è l’unico e il solo a dire la verità, canzonando il Re stesso, che si circonda di serpi e incompetenti, e nonostante ciò, per via del ruolo che ricopre in quella corte, rimane impunito, con la testa salda sulle spalle. Per riuscirci Macchia sapeva che interpretare più maschere non sarebbe stato sufficiente, finché non si fosse fatto maschera egli stesso; da qui Maccio Capatonda, che è il vero artefice di tutto, l’altra parte bipolare di Marcello, che al declino epocale risponde con buffonerie assortite.

Tutte cose che in fin dei conti già si sapevano, nulla di nuovo. Il punto è, come trasporre un meccanismo così sagace sul grande schermo, dove altri, sebbene meno talentuosi, hanno miseramente fallito? Certo non si può dire che Italiano medio (il film) sia un progetto in tutto e per tutto “riuscito”. Anzi, per certi versi si potrebbe pure arrivare a dire che non sia cinema. Solo che simili quesiti non ci portano da nessuna parte, e non semplicemente perché il film fa ridere e questo conta. Nient’affatto.

Dovendo approntare un briciolo di critica al prodotto Italiano medio, si può tutt’al più dire che Maccio Capatonda ricicla sé stesso e tutto il suo carrozzone grottesco ed esasperato come può, fermandosi però a metà strada. Partenza col botto, una delle migliori degli ultimi anni di cinema italiano, poi, gradualmente, va sgonfiandosi. Era presumibile, visto che mantenere quella esplosività e quel ritmo è cosa da cineasti navigati od oltremodo dotati; incisivo ad intermittenza, il film, sgangherato per com’è, possiede comunque una vitalità ed una freschezza comica inusuali. In più Maccio ed i suoi collaboratori riescono ad evitare l’epilogo più ovvio, quello che in tanti abbiamo temuto, ossia che il tutto si risolvesse in un’accozzaglia di gag. Scadute per giunta.

Nulla di tutto questo, e sebbene non si possa ammettere che in Italiano medio sia “tutto giusto”, bisogna altresì constatare che “quasi niente è sbagliato”. La verve del nostro sta lì a testimoniare la freschezza di un personaggio che al cinema è comunque di passaggio, trailer(s) o non trailer(s) – quantunque il sottoscritto auspichi un secondo lungometraggio dopo questo giro di prova. L’operazione condotta non è stata quella di portare il cinema nel suo mondo, bensì, viceversa, di portare il suo mondo al cinema. Una tale duttilità, che ha passato più che dignitosamente tutti i mezzi di comunicazione più diffusi (radio, internet, TV ed ora cinema), eccetto i videogiochi, conferma la portata di un fenomeno che a questo punto non si può più relegare a mero exploit di passaggio (scherzando e ridendo Maccio Capatonda è in giro da circa otto anni oramai, mese più mese meno).

Alcuni potranno addirittura sentirsi offesi da questa lesione d’integrità, da questa bestemmia mediatica per cui un ciarlatano venuto dall’evanescente mondo della rete finisce col fare un film. Traditi e costernati da questo ennesimo schiaffo al buon senso, potrebbero addirittura latrare contro chi ce l’ha messo lì, pronto a evacuare banconote perché in fondo è solo di questo che si tratta. Facciano pure, purché costoro sappiano che stanno avvelenandosi per nulla. Italiano medio non può e non deve essere considerato un progetto alla stregua di un Fuga di cervelli, giusto per dirne uno, né si può liquidare col solito «questo è ciò che la gente vuole», sottintendendo la «gente ignorante».

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Pensiamo ad un Checco Zalone, altro fenomeno che ha finalmente scosso uno specifico settore del nostro cinema, capace di sfornare roba oramai insostenibile, tutta uguale e alla stregua del cinepanettone sebbene la dicitura sia altra. L’ostilità a più riprese mostrata nei confronti del comico pugliese non si spiega diversamente se non con il pregiudizio, nonché con la pigrizia di chi l’oggetto non intende seriamente osservarlo, analizzarlo, anche se per poi prenderne le distanze. Non si è infatti mai realmente trattato di essere pro o contro Zalone; tutt’al più opere come Cado dalle nubi e Sole a catinelle fungono da esempi rispetto a come un cinema diverso, imperniato su un solo personaggio ok, ma diverso, sia possibile. A che livello sia “diverso” è l’ambito di studio entro il quale muoversi; per quanto ci compete, basti dire che nel suo puntare allo stomaco dello spettatore (italiano) medio, Zalone è riuscito ad integrare un tipo di comicità specifica, unica se vogliamo. Perciò sarà anche la stessa la fotografia, stessa la struttura, sarà pressoché assente un’idea solida di cinema, eppure anche quello è cinema. E come dicevano le nonne col cibo a tavola, prima di dire che fa schifo almeno assaggia.

Maccio Capatonda, tutt’altro personaggio, sembra uscito da una puntata dei Simpson o dei Griffin, rivisto in chiave italica/italiota. Il suo è un sarcasmo pungente, grottesco, smodato, sulla falsa riga di certo umorismo ricercato ed irriverente à la South Park, senza però le cadute di stile e di toni che contraddistinguono di tanto in tanto sia la serie di Parker e Stone, sia quella di MacFarlane. Non disponendo di produzioni e strutture all’altezza, ergo di un’industria vera e propria, dalle nostre parti il mondo e le avventure di Maccio Capatonda rappresentano quanto di più vicino a quei riferimenti lì; lui ed i suoi compagni d’avventura sono i nostri Peter Griffin, Bart, Cartman, Bender e via discorrendo. Dunque fenomeni aperti a più utilizzi, pressoché a qualunque livello. Meno incisivi magari, come alcune delle uscite presenti nel film, ma vabbè. Non averlo colto denota la nostra miopia, la nostra abiura alla pratica di studiare la contemporaneità, rifiutando tutti quegli strumenti che ci servono per leggerla ed interpretarla. Anzi, in alcuni casi pure una certa esterofilia che non può che tradire un malcelato senso d’inferiorità, quasi sempre a senso unico (United States of America, anyone?).

Sappiamo pure che la fuori c’è chi interpreterà questo nostro scritto come un tentativo maldestro di nobilitare “qualcosa” che semplicemente non è: a questi diciamo «accomodatevi». L’impressione è che il tempo chiarirà davvero la questione, ma ciò non significa che nel frattempo non si possa né si debba provare a rintracciarne i termini. Ma al di là delle simpatie e dei gusti, chi vorrà negare a Marcello Macchia lo status di personaggio di spettacolo rilevante all’interno del panorama italiano, oggi come oggi dovrà munirsi di motivazioni che quantomeno filino. Fino ad allora non si perda tempo a constatare l’ovvio, cioè che Italiano medio sia un filmetto o che non abbia addirittura nulla a che spartire col cinema; tutte affermazioni che celano un parte di verità, non si scappa. Ma che non ci aiutano, né contribuiscono ai fini di una discussione su cui Italiano medio riporta violentemente l’attenzione. Sempre che ce ne freghi ancora qualcosa; anche perché, come dice Giulio Verme, «bisogna mettere le mani nella merda per trovare l’oro». A ‘sto giro ci va pure bene che il “concime” in questione non puzzi così tanto né abbia quel colore.