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Youth – La giovinezza: recensione del film di Paolo Sorrentino in Concorso a Cannes 2015

Festival di Cannes 2015: lasciatosi forse definitivamente alle spalle l’ansia di una sceneggiatura “forte”, Paolo Sorrentino riesce al tempo stesso ad arginare il suo stile, trovando un equilibrio che fa di Youth – La giovinezza non solo una grottesca, melanconica dark comedy, ma anche una tappa spartiacque nella filmografia del regista

pubblicato 20 Maggio 2015 aggiornato 30 Luglio 2020 15:42

In una lussuosa struttura svizzera sono soliti ritirarsi vecchie glorie, uomini e donne di spettacolo ancora in attività, sportivi, personaggi famosi in generale. Fred (Michael Caine) è uno di questi: un passato da compositore, amico intimo di Stravinsky in gioventù, passato alla storia per una composizione in particolare. Abbattuto, quello nella suggestiva Svizzera non è semplicemente un ritiro dalla scena bensì da sé stesso, dall’incedere inesorabile degli anni. Con lui c’è Mick (Harvey Keitel), regista di fama mondiale che sta lavorando al film testamento della sua carriera insieme ad uno sparuto gruppo di giovani sceneggiatori, un attore (Paul Dano) che sta preparandosi in vista del suo prossimo film, nonché la figlia di Fred (Rachel Weisz), alle prese con il recente naufragio del proprio matrimonio.

Youth evoca svariate cose, argomenti per lo più alti, in cui la giovinezza di cui al titolo attiene più a una condizione esistenziale che all’anagrafe. È un Sorrentino che non cede alla tentazione di restare vittima del proprio stile, che eppure c’è e contribuisce in maniera determinante. Il suo è un discorso che anche stavolta, come ne La grande bellezza, non si lascia limitare da una sceneggiatura per così dire “forte”: anzi, pare che l’idea stessa di script relativamente al suo cinema abbia subito una modifica sostanziale, dalla quale forse non si tornerà più indietro. No, quello che al regista partenopeo serviva non era sceneggiatura eccezionale, con scrupolosa osservanza annessa. Nossignore. Sorrentino aveva solo bisogno di arginarsi, partendo proprio da quel suo stile strabordante, negli ultimi suoi due film sovraesposto più del giusto.

Il suo oramai non è più un cinema strettamente narrativo, ed è bene che ci si faccia una ragione di questa realtà. Tuttavia non si può nemmeno dire che si sia dato all’anti-narrazione, questo nemmeno; il suo modo di raccontare procede per immagini, episodi, talvolta malinconici, spesso grotteschi. Tutte cose che evidentemente vengono legate insieme in un secondo momento; da cui l’impressione che la narrazione di Youth sia debole. Eppure ci pare che a questo regista i suoi personaggi (Caine e Keitel meriterebbero un articolo a parte per quanto sono indovinati e preziosi) interessino anzitutto come catalizzatori di affermazioni, non di rado di sentenze, in funzione della storia per l’appunto.

Lo sappiamo, le sue sono riflessioni, frasi ad effetto che hanno che hanno un che di letterario, se non fosse per quel suo modo spiccatamente cinematico di sublimarle, fondendo queste due propensioni in una poetica unica. Ma stiamo attenti: non vorremmo che un po’ tutti si fosse vittime della sindrome da La grande bellezza, che, ça va sans dire, lo ha segnato in maniera irrimediabile. Youth è decisamente più piccolo, ma che di quel film lì recupera la libertà, il gusto di fare cinema senza dover per forza di cose dover mostrare di saperle fare, ostentando un’estetica che ancora ancora nel film che ha vinto l’Oscar funziona, ma che per esempio in This Must Be the Place lascia spesso il tempo che trova.

Verrebbe da dire che qui la verve sorrentiniana sia al servizio della morale di cui il film si fa portavoce; il che non va inteso in accezione negativa, anzi. D’altronde non scopriamo oggi la propensione di quest’autore nel proporre, accanto all’osservazione dei tipi che analizza, considerazioni nette, personali, atteggiamento che può di per sé indisporre. Ed è proprio a tal proposito che il gesto di restare più semplice, di non caricare troppo un film che in fin dei conti si basa su un’idea sola (e neanche troppo originale), reiterata fino all’apice conclusivo, risulta un segnale importante, lo stesso a cui chi scrive sperava di assistere alla vigilia.

Ma poi, come si fa a non apprezzare il gusto di giocare col mezzo che un Sorrentino ancora più consapevole mostra in Youth? Meno idee, più ordinate, ma ugualmente stravaganti: un pachidermico Maradona che palleggia con una pallina da tennis (anni fa si raccontava che El Pide de Oro lo fece sul serio), un Hitler che fa colazione da solo, un concerto di mucche orchestrate e via discorrendo, ché non vogliamo privarvi del piacere della sorpresa. Cinema come ricerca dell’insolito nell’ordinario; Sorrentino ci riesce di nuovo, smanettando pure con la colonna sonora e gli effetti sonori, parte integrante del suo peculiare modo di narrare. Il tutto nell’ambito di un contesto più piccolo; laddove ne La grande bellezza è Roma la vetrina a cielo aperto dei suoi freaks con sentimenti umani, qui la Città Eterna viene sostituita da un hotel termale a cinque stelle.

Peraltro, più che uno striminzito doppione, mi pare che Youth sia un po’ il sequel del film che ha vinto l’Oscar. Lì il senso passa attraverso l’ostentata irrilevanza di personaggi mediocri, alcuni consapevoli della propria mediocrità, altri meno; qui, chi più chi meno, è tutta gente affermata o sulla buona strada per diventarlo, dotati di almeno un talento. Eppure tutto torna sempre (non si riduce) alla ricerca della bellezza, che ciascuno chiama a proprio modo, ma che è quello che nessun riconoscimento, per quanto eccezionale, potrà mai darci. O per lo meno è questo ciò che si legge tra le righe.

youth

Tra le righe di un film che, riscoprendosi di gran lunga più efficace come commedia rispetto all’osannato film precedente di Sorrentino, riesce paradossalmente a tirare fuori meglio la malinconia di fondo, quel sentimento che aleggia in tutti i suoi film e che è perciò parte integrante della sua visione del mondo. Soprassediamo su certi ragionamenti, magari pure giusti, che si faranno in merito al discorso che Youth porta avanti anche internamente al cinema; quando Mick manifesta il proprio desiderio di tornare alla vita (sottinteso “quella reale”, ossia al di fuori del cinema), sembra di rivedere il Turturro di Mia Madre che nel film di Moretti dice praticamente la stessa cosa. Ok, ma a questo punto certe cose ci paiono sinceramente meno rilevanti.

La notizia è che Sorrentino sembra aver trovato definitivamente il territorio a lui più congeniale, quello verso cui, coscientemente oppure no, ha teso per l’intera sua carriera, cioè la dark comedy. E Youth è una commedia nera in tutto e per tutto; originale, mesta ma al tempo stesso energica, per nulla ripiegata su sé stessa perciò. Che si sofferma sul desiderio, instabile come poche cose nella vita. Ma anche divertente in modo peculiare, come qualunque commedia ha il dovere di essere, pena essere qualcos’altro. Impefetto senza dubbio, forse addirittura un po’ sbilanciato rispetto alle premesse che lui stesso pone, rinforzando il concetto in corso d’opera (si lavora tanto per dirci esplicitamente che «le emozioni sono tutto ciò che conta», ma alla fine questo è un film che passa più dalla testa e dalla pancia, anziché dal cuore).

Ma va bene, perché pure nelle sue contraddizioni (oseremmo dire strutturali), Youth a prima vista ci pare sì un buon gradino sotto rispetto ad un capolavoro come Il divo ma anche rispetto all’imprescindibile Le conseguenze dell’amore; per il resto della sua filmografia non vedo storia però. No, nemmeno per il premio Oscar, al quale tuttavia va attribuito un ruolo fondamentale affinché Youth fosse ciò che è: nel senso che qui è innegabile un maggiore controllo rispetto alla sua opera precedente, senza la quale viene da credere che tale equilibrio ripetto alla propria foga visionaria avrebbe rappresentato un traguardo impossibile da raggiungere. Dunque, nonostante tutto, Sorrentino riparte proprio da qui, ossia dal post-La grande bellezza. Tendenza che siamo persuasi verrà fuori con maggiore chiarezza nell’imminente serie televisiva The Young Pope – ah, qualora ci fossero dubbi circa il sottotesto autobiografico, sappiate che in Youth si parla anche, per vie traverse, proprio di questa sua prossima esperienza. E con dei presidenti di Giuria come i Coen, vuoi che questo non sia uno dei film favoriti per la Palma d’Oro?

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[rating title=”Voto di Federico” value=”8″ layout=”left”]

Youth – La giovinezza (Youth, Italia-Francia-Svizzera-Regno Unito, 2015) di Paolo Sorrentino. Con Michael Caine, Harvey Keitel, Rachel Weisz, Paul Dano, Jane Fonda, Neve Gachev, Ed Stoppard, Alex MacQueen, Tom Lipinski, Madalina Diana Ghenea, Emilia Jones e Chloe Pirrie. Nelle nostre sale da oggi, mercoledì 20 maggio.

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