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La regola del gioco: recensione in anteprima

La storia di Gary Webb, giornalista del San Jose Mercury News che per primo pubblicò un articolo circa il coinvolgimento del governo americano, mediante la CIA, in un cospicuo traffico di cocaina dal Nicaragua. Jeremy Renner protagonista e produttore de La regola del gioco (Kill the Messenger)

pubblicato 15 Giugno 2015 aggiornato 30 Luglio 2020 14:59

C’era un tempo in cui per andare a fondo su certe tematiche non si poteva far altro che affidarsi ai romanzi, o meglio ancora ai film. Alan Pakula è certamente uno dei cineasti che hanno meglio soddisfatto questo innato interesse per le logiche di potere, tanto più in contesto come quello degli Stati Uniti d’America, dove la ragnatela nel XX secolo è stata intricata come non mai. E si pensa subito a Tutti gli uomini del presidente, esponente illustre del genere, sebbene Pakula di film a tema ne abbia girati anche altri, e di spessore.

La regola del gioco, volendo, si accoda a questo filone qui. Un filone che va recuperato, sebbene oggi la domanda, per così dire, venga da anni assecondata dalla rete e dalla miriade di siti più o meno affidabili che con certe tematiche vanno a nozze. CIA, FBI, Pentagono… come operano realmente? Epperò c’è sempre bisogno di una storia, di una ricostruzione romanzata, narrata, perché si riesca a far presa anche su un pubblico che di suo non coltiva particolare interesse a riguardo. Quella di Gary Webb è una di queste.

Giornalista presso il San Jose Mercury News, a metà degli anni ‘90 Webb pubblicò un articolo scottante circa il coinvolgimento diretto della CIA nell’importazione di droga dal Nicaragua agli USA. Un pezzo che fece scalpore e che gli valse pure riconoscimenti, sia istituzionali che in termini di popolarità. Sebbene siano trascorsi appena vent’anni, sembra si stia parlando davvero di un’altra epoca; internet era ancora affare per pochissimi, e per certi servizi d’intelligence contenere fenomeni del genere rientrava in procedure che si portavano avanti da decenni.

Infatti, non appena l’articolo diventa un caso, parte la campagna di diffamazione ai danni di Webb. La regola del gioco segue la vicenda dall’inizio, quando una soffiata gli rivela dei traffici alquanto loschi. Vale la pena approfondire. Dato che ad oggi si ha la conferma che le tesi sostenute da Webb fossero fondate, il regista Michael Cuesta non ha bisogno di ricreare alcuna suspense: ciascuno di noi è spettatore tanto quanto il giornalista delle tremende scoperte in merito al collegamento tra CIA e signori della droga nicaraguensi. Questo difatti non è che il prologo. L’azione vera e propria si consuma dopo, quando ai complimenti per l’eccelso colpo di giornalismo seguono dapprima i sospetti abilmente insinuati, poi la diffamazione, fino alla squalifica pubblica.

Cuesta opta per la semplicità, limitandosi a raccontare senza troppi fronzoli l’avvicendarsi degli eventi, focalizzandosi su quei passaggi chiave che ci permettono di comprendere certe logiche. La storia, infatti, è di quelle che rischiano sul serio di smuovere le acque, motivo per cui il potere non può certo star lì a guardare. Webb non è un eroe, è solo un giornalista che intende fare il suo mestiere: si trova tra le mani una storia su cui vale decisamente scommettere e lo fa. Non importano gli avvertimenti da parte di un politico che opera in Campidoglio e che, ben sapendo cosa ci sia in gioco, mette in guardia Webb. Né questi inquietanti tizi che si aggirano nel suo vicinato, che addirittura entrano e frugano tra la sua roba nel seminterrato con lui davanti, come se fosse normale.

Succede nei film più riusciti che i dettagli si rivelino fondamentali, oltre che eloquenti. In questo la macchina da presa segue sempre e solo Webb, il suo dramma; al contempo veniamo edotti circa il modus operandi a certi livelli, che vengono per lo più evocati. Nulla viene mostrato per ciò che realmente è, tanto che a un certo punto s’innesca un processo che ha molto a che fare con la realtà, quando il protagonista, e noi con lui, comincia a dubitare di ciò che sa e che ha visto. Non fino in fondo, s’intende, ma quando tutti intorno a te non fanno altro che rinfacciarti il contrario, quando soprattutto i media si scoprono complici, ebbene, anche la stabilità del più sano di mente comincia a vacillare.

In tutto ciò, lo ripetiamo, Cuesta dimostra di sapere il fatto suo, non disdegnando affatto l’integrazione di materiale di repertorio, muovendosi bene coi tempi, senza mai esagerare. Alternando il dramma umano a quello, se così si può dire, sociale, ovvero di una società i cui “guardiani” sanno di non dover rispondere a nessuno per ciò che fanno. L’esatto contrario di democrazia perciò. Perché La regola del gioco, non bastasse la menzione di Pakula all’inizio, è un film politico fino al midollo, ma nell’accezione più sana del termine. Un’opera che fa cronaca, riportando alla luce un episodio che a suo tempo non passò certo inosservato, ma che in un’epoca così smemorata come la nostra si era fatto presto a relegare in una sorta di dimenticatoio. Senza retorica, mediante una narrazione asciutta, comprensibile e pure coinvolgente, grazie anche ad un Renner notevole.

[rating title=”Voto di Antonio” value=”7.5″ layout=”left”]
[rating title=”Voto di Federico” value=”7″ layout=”left”]

La regola del gioco (Kill the Messenger, USA, 2014) di Michael Cuesta. Con Jeremy Renner, Rosemarie DeWitt, Ray Liotta, Tim Blake Nelson, Barry Pepper, Oliver Platt, Michael Sheen, Paz Vega, Michael Kenneth Williams, Mary Elizabeth Winstead, Andy Garcia, Robert Patrick, Jena Sims, Ted Huckabee, Matthew Lintz, Parker Douglas e Joshua Close. Nelle nostre sale da giovedì 18 giugno.