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Venezia 2015, Beasts of No Nation: recensione in anteprima

Cary Fukunaga apre col botto il Concorso. Beasts of No Nation è un’elegia che mescola orrore e vanità, infondendo un senso estetico raro ed appagante, malgrado la crudeltà della vicenda

pubblicato 3 Settembre 2015 aggiornato 30 Luglio 2020 13:08

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Chi ancora cercasse conferme circa l’impatto di Malick sul cinema indipendente americano non avrà che da vedere Beasts of No Nation, l’ultima fatica di Cary Fukunaga sotto l’egida di Netflix. Un film che ha diviso e continuerà a dividere. Ma c’è un passaggio, uno, che più di tutti è stato rivelatore per chi scrive. Agu (Abraham Attah), il giovane e talentuoso protagonista che, salvo ulteriori sorprese, ha già ipotecato il Premio Mastroianni, marcia col un fucile in mano sul ciglio della strada; accanto a lui sfilano dei furgoni con all’interno dei membri delle Nazioni Unite che osservano. Due inquadrature esatte ed ecco come Fukunaga ti capovolge la prospettiva. Totalmente.

A certe scene, che siano film, reportage, servizi o documentari, siamo per lo più soliti “partecipare” attraverso lo sguardo dello straniero, che riconosce la pericolosità di certe aree senza in fondo saperne granché. Ma l’inquadratura si sofferma sulla donna bianca nel furgone giusto qualche secondo, istanti che fanno la differenza; solo quando la macchina da presa torna su Agu ci rendiamo davvero conto di ciò che abbiamo visto sino a quel momento. Prima ci si era lasciati colpire dalla violenza, dalla brutalità di certi episodi che però hanno fatto male sul momento; d’ora in avanti la stordimento non rientrerà più.

Fukunaga riesce nell’antipatico compito di estetizzare e rendere “accessibile” alcune delle inclinazioni peggiori dell’uomo, che tanto sprofonda finché non viene assimilato ai demoni che lo ispirano. Siamo in Africa, dove imperversano guerre senza fine, di cui peraltro si sono oramai smarrite pure le ragioni. La guerra, insomma, quale condizione permanente di un continente disgraziato, dove a farne le spese sono tutti, ma più di tutti i bambini. Agu è uno di questi; spensierato, sempre col sorriso sulla bocca, mentre inscena programmi televisivi nel suo tubo catodico immaginario, o gioca a fare le boccacce col fratello maggiore che fino a poco prima lo ha costretto, arrotolato dentro a un tappeto, al supplizio di vederlo ballare.

C’è miseria, povertà estrema, e ci si arrabatta alla bell’e meglio per quattro spiccioli in zone in cui le uniformi militari lasciano indifferenti quanto da noi chi porta il cappello in inverno. Da un lato l’esercito, dall’altro i ribelli: non c’è una terza via. Ed allora anche il villagio di Agu viene attaccato, perdendo l’intera famiglia, sebbene la madre subisca indirettamente, dato che ha dovuto lasciare il villaggio prima dell’attacco insieme ai fratellini di Agu. La madre. Ritorna sovente nei pensieri del piccolo. Mamma, papà, Dio. La voce fuori campo che di tanto in tanto irrompe poeticamente in mezzo a quell’orrore altri non è che quella di Agu. S’interroga il bimbo, su ciò che ha fatto, sul perché, sul fatto che dovrà pagare fino all’ultimo centesimo per la sua condotta.

È la guerra. Quella che le nostre generazioni non conoscono, che ti catapulta da una dimensione a un’altra con una crudeltà inaudita. Fukunaga coglie subito l’opportunità estetica e ne fa tesoro: ad una prima parte contraddistinta da un taglio documentaristico, per così dire, eccone un’altra allucinata e allucinante, frenetica, onirica nell’accezione più spaventosa del termine. Attorno ad Agu non c’è semplicemente la morte, bensì la ferocia animalesca, la bestialità di cui al titolo del film. Stupri, uccisioni di massa e abusi di ogni genere. Quel che è peggio è che a tale furia, che è fuori, non c’è modo di resistere: ti entra dentro, scaraventandoti in un oblio al quale nessuno può davvero far fronte. Men che meno un bambino.

L’esistenza del giovanissimo protagonista muta allorché incappa nel Comandante (Idris Elba), un militare ciarlatano che ha messo su un piccolo esercito di ragazzini tra i dieci e i vent’anni. Un’età in cui si è estremamente duttili, malleabili e plasmabili a proprio piacimento; ed infatti il Comandante fa di loro delle macchine di morte, indottrinandoli su vaghi concetti di fedeltà e onore. Ma non ci si mette tanto ad accorgersi che le cose non stanno così. Il Comandante è a sua volta vittima della sua utopia, dalla cui coppa ha bevuto fino a perdere i sensi e a farli perdere pure a chi lo segue.

Quanto male fa l’ingresso in questo mondo di Agu! La prima uccisione, la prima sniffata, ogni primo passo da cui non tornerà più indietro. In un contesto dove non ci viene risparmiato nulla, perché Beasts of No Nation sa essere crudo, tremendo, e per un prolungato periodo. Certi passaggi si fatica proprio a reggerli, non solo per la violenza visiva quanto per quella psicologica, costretti a sopportare un abuso sessuale di natura pedofila, che non ci viene mostrato ma è come se fosse. Morte e sesso ricompaiono prepotentemente, intrecciati come sempre, in un bordello o durante un rastrellamento, dove un barlume di umanità spinge Agu a far saltare le cervella di una madre che sta subendo uno stupro di gruppo davanti alla propria figlia, a sua volta pestata a morte.

No, affermare che Beasts of No Nation non sia un film piacevole è pressoché banale. È terrificante, duro non come un pugno ma come una scarica di pugni dritti sulla bocca dello stomaco. Ma c’era bisogno di attardarsi su una storia così, specie in questo modo. Fukunaga sa che a non trattare con accondiscendenza lo spettatore si rischia in molti casi di alienarsene la simpatia, ma pazienza. È vero, ci sono cose che a pelle sai che non devono essere mostrate, come lo squartamento di un uomo ad opera di un grizzly (Grizzly Man) o i cadaveri di coloro che si lasciarono spaventosamente cadere nel vuoto dagli ultimi piani delle Torri Gemelle, giusto per dirne due. Altre però vanno mostrate eccome, non soltanto perché esistono ma perché talvolta si ha il bisogno di comprendere, di avvicinarsi anche solo un po’ al baratro in cui l’essere umano, ciascun essere umano, è capace di precipitare. E l’aspetto più inquietante, malgrado tutto, sta nel prendere atto di quante persone preferiscono girarsi dall’altra parte.

[rating title=”Voto di Antonio” value=”8″ layout=”left”]
[rating title=”Voto di Federico” value=”8″ layout=”left”]
[rating title=”Voto di Gabriele” value=”4″ layout=”left”]

Beasts of No Nation (USA, 2015) di Cary Fukunaga. Con Idris Elba, Ama Abebrese, Richard Pepple, Abraham Attah ed Opeyemi Fagbohungbe.

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