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Chiamatemi Francesco – Il Papa della gente: recensione in anteprima del film su Bergoglio

A dispetto del tono anche troppo pacato, Chiamatemi Francesco – Il Papa della gente si pone quale naturale estensione cinematografica del mito Bergoglio, perciò celebrativo e inconsistente. Tanto nei contenuti quanto nella forma

pubblicato 29 Novembre 2015 aggiornato 30 Luglio 2020 10:42

Chi è Francesco? Da quel 13 marzo 2013 è stato tutto un susseguirsi di sorprese e colpi di scena, per cattolici e non cattolici. Il «Papa della gente», l’hanno subito definito, quantunque lui, più umilmente, da subito ha messo in chiaro di preferire il titolo di Vescovo di Roma, a significare quella collegialità per cui l’idea di un vescovo “superiore” (il Papa) sia troppo forte, troppo netta. E Francesco piace, piace a tanti, specie a chi fino al giorno prima nel Papato era solito per lo più vederci la personificazione di un antipatico figuro dai capelli grigi, troppo ricco, intrallazzatore ed incapace a farsi gli affari propri.

Daniele Luchetti però qui non ha il tempo di soffermarsi sugli ultimi due anni, preferendo andare alle origini del mito Bergoglio; quando Jorge Mario da laico si fa prete per amore di andare ad evangelizzare il Giappone, viaggio che non farà mai ma che in compenso si tramuta nella svolta esistenziale, ovvero l’ingresso nella Compagnia di Gesù fondata da Sant’Ignazio. Di primo acchito sembrerebbe una buona occasione per approfondire la figura dell’attuale Pontefice, che nella storia della sua Argentina si è già ritagliato un posto non del tutto secondario. Specie, manco a dirlo, in quel di Buenos Aires, diocesi di cui è stato per anni vescovo.

Succede però che a credere ad un’operazione di questo tipo si finisce col prendere una cantonata micidiale, oltre a denotare un pizzico d’ingenuità. Chiamatemi Francesco altro non si rivela che opera sostanzialmente celebrativa, per certi versi addirittura “pericolosa”, poiché oggetto di tale celebrazione è un uomo ancora attivo e operante, qui consegnatoci prima del tempo come una sorta di eroe, paladino o, per chi ci crede, santo. Una deriva strenuamente voluta e sostenuta a priori, che non regge per un solo, minuscolo istante.

Disarmante è la piattezza con cui vengono messi in scena i primi passi del Bergoglio sacerdote, posto sin da subito nella complessa e delicata posizione di superiore provinciale del proprio Paese; ruolo reso oltremodo arduo dalla dittatura che l’Argentina attraversa in quel periodo, quando bastava un sospetto, si appurerà in seguito, per “scomparire” – ad opera dei militari, s’intende. Qualora l’asettica prima parte non fosse sufficiente a chiarirci la natura del prodotto, è in questo passaggio che cominciano ad emergere con chiarezza quegli elementi che servono a leggere il film: Bergoglio piange, s’adira, fa buon viso a cattivo gioco, con diplomazia timidamente gesuitica. Ma è pur sempre il buono, al peggio colui al di sopra delle parti.

C’è una scena, poco più avanti, in cui l’Arcivescovo Quarracino va a trovare il Bergoglio in un luogo sperduto, in mezzo ai maiali (e gli autori ci tengono anche a far sapere quanto disti esattamente dalla Capitale); il giovane prete, serafico, si dice galvanizzato da questa sua esperienza, ed è a quel punto che l’Arcivescovo se ne esce con: «sai benissimo che questo è un esilio». A quel punto, fosse anche per mere esigenze di scrittura, prima ancora che di cronaca, t’aspetti che un’affermazione di questo tipo, dal potenziale narrativo notevole, venga di lì a poco ”spiegata”, o meglio ancora, illustrata. Nulla da fare. Ma allora chi l’ha «esiliato»? E soprattutto perché?

Vedete, qualcuno potrebbe far notare che questi sono quesiti da giornalista, e che il dovere di cronaca è altra cosa rispetto alla rappresentazione romanzata. Trattasi però di un appunto che lascia il tempo che trova, la cui responsabilità ricade solo ed esclusivamente su chi ha concepito questo progetto; perché se vuoi cimentarti nella biografia, per quanto chiaramente ridotta, di un personaggio ancora vivente, tanto più se così significativo nell’ambito dell’attualità a tutto tondo, non solo politica e/o spirituale, si ha il dovere di evidenziare tutto ciò che conta. «Perché», verrebbe da dire, «se fosse morto sarebbe invece lecito omettere?». No senz’altro. Ma vedete, nel bene o nel male, i defunti non sono tenuti a rispondere delle nostre indagini, in più la storia di solito, estinti i diretti interessati, ha modo di vederci con più nitidezza – il che non significa che la Storiografia sia sempre imparziale, anzi.

Senza un impulso di questo tipo a dettare i tempi e le ragioni di un’opera siffatta, qualsivoglia tentativo di non farne un’agiografia camuffata risulta vano. D’altronde non si possono astrarre le circostanze storiche alle quali l’uscita di Chiamatemi Francesco sono ascritte, né tantomeno ci pare che regista e sceneggiatore manifestino interesse a farlo: diversamente il forzato ed anacronistico siparietto con l’amica giudice che convive con un uomo sposato, e dal quale ha avuto dei figli, non ci starebbe, per esempio. Tutto peraltro proposto in maniera così asfittica, quasi fosse davvero una video-cronaca romanzata da film seriale per la TV. Gli autori confidano così tanto nella presa che il personaggio Bergoglio (quello vero) ha mediamente nelle persone, che sembra aver sorvolato sulla comunque insopprimibile necessità di rendere interessante la serie di eventi che si avvicendano nel film.

Derive sinceramente prevedibili, il cui vero errore sta a monte, ossia nell’essersi voluti imbarcare in un simile viaggio senza applicare alcuna lente specifica, se non quella del rispettoso omaggio, non tanto verso la persona bensì verso l’immagine di Francesco così per come si vuole che venga percepita. Non nutriamo infatti dubbi sulla buona fede di Luchetti, il quale, ai microfoni di Repubblica, dichiara: «La preoccupazione più grande era quella di non fare il santino […] volevo evitare quei momenti dei biopic in cui il regista in qualche modo dà di gomitata al pubblico per dire vedi già si capiva che sarebbe diventato Papa».

Il regista, per mezzo di un innocente lapsus freudiano, pare confondere la figura del santo con quella del Papa, ruoli che raramente nella storia si sono sovrapposti, tanto più con pontefici ancora regnanti. Eppure, malgrado gli evidenti sforzi, Chiamatemi Francesco non riesce proprio a scrollarsi di dosso l’aura da santino; laico, certo, perciò ancora più annacquato e privo di alcun concreto fascino. Tenore adatto al più per chi vuole essere confortato nell’impressione di avere davanti un grande rivoluzionario, che cambierà per sempre l’immagine della Chiesa di Roma. Valutazioni implicite e sulla fiducia che spettano ai posteri; un film, nelle forme e nei modi che ritiene più congeniali, dovrebbe raccontare il reale o intrattenere. Nel migliore dei casi, può anche fare entrambe le cose. Mentre invece se c’è qualcosa da apprendere da Chiamatemi Francesco, è la ritrosia di certo cinema nel voler seriamente affrontare la realtà. E se proprio non si riesce, ci resti almeno lo spettacolo, per cui a questo punto aspettiamo di vedere The Young Pope: c’è il serio rischio che il Pio XIII di Sorrentino finisca con l’essere un Papa più credibile rispetto a quello tratteggiato da Luchetti.

[rating title=”Voto di Antonio” value=”2″ layout=”left”]

Chiamatemi Francesco (Italia, 2015) di Daniele Luchetti. Con Rodrigo De la Serna, Sergio Hernández, Muriel Santa Ana, José Ángel Egido, Alex Brendemühl, Mercedes Morán, Pompeyo Audivert e Paula Baldini. Nelle nostre sale da giovedì 3 dicembre.