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Un posto sicuro: recensione in anteprima

Triste ma sentita storia tesa a dare risalto ad una pessima pagina della nostra storia recente, ovvero le numerose morti a causa dell’amianto. Dove Un posto sicuro tende a perdersi, malgrado un approccio asciutto ed apprezzabile, è semmai nelle dinamiche interpersonali

pubblicato 2 Dicembre 2015 aggiornato 30 Luglio 2020 10:36

L’amianto. Ancora oggi si calcola che il nostro Paese ne è pieno zeppo, nell’ordine di tonnellate e tonnellate sparse per la Penisola. Sì perché c’era un tempo in cui si pensava che questo materiale fosse innocuo, mentre invece si scoprì essere dannosissimo. Problema che lì per lì non ci si pose: l’Eternit, di proprietà belga, portò effettivamente benessere ed in una qualche misura pure prosperità, sia per la mole d’impiegati di cui si fece carico nel dopoguerra, sia perché con l’Eternit ci facevi di tutto.

In Un posto sicuro si fa leva, beffardamente, su quel nome: Eternit. Riconducibile ad «eternità», perché di questo cemento-amianto si diceva fosse “eterno”. Eterno però non è l’uomo in questa vita, perciò i primi problemi sorsero allorquando ci si rese conto che gli operai, esposti per anni a tale materiale, in troppi casi si ammalavano. Mali incurabili, va da sé, frutto di anni e anni di inalazioni e contatto. Casale Monferrato è tra quei siti maggiormente colpiti da questo fenomeno, ed è dove si svolge la storia del film di Francesco Ghiaccio.

Lavoro di cui Marco D’Amore è non solo attore protagonista ma anche produttore. Insieme a lui Giorgio Colangeli, nei panni del padre, e Matilde Gioli, la ragazza con cui tenta di costruire una relazione. Ma non è un film facile, questo. Tanto più che il tono è inevitabilmente quello di denuncia, dato che i capoccia dell’azienda produttrice di Eternit, alla fine assolti dall’accusa di sapere che l’Eternit fosse altamente cancerogeno, rappresentano un po’ la mano invisibile verso cui Un posto sicuro si scaglia, chiedendo giustizia.

Per sublimare, se così si può dire, tale impeto, Ghiaccio, che è anche scrittore del libro da cui il film è tratto, adotta l’escamotage della pièce teatrale. Luca, il protagonista, è infatti un ex-attore che tira avanti facendo il pagliaccio alle feste; alcolista, solo, con un padre al quale ancora rimprovera di non essere stato presente quando la moglie, morente, aveva bisogno. Eduardo, il padre per l’appunto, dal canto suo mette sul tavolo le proprie ragioni: all’epoca si doveva lavorare, e l’azienda era tutto. Il loro riavvicinamento diventa occasione per prendere coscienza non solo del loro rapporto ma anche, e soprattutto, della triste vicenda dei tanti operai che hanno perso la vita.

Probabilmente si è rivelato un limite il fatto che Ghiaccio e D’Amore credessero a tal punto in questa storia, ancor di più nell’argomento: tanto da maneggiarlo senza quel pizzico di distacco utile a tirare meglio le fila di un discorso per lo più scontato, a dispetto della delicatezza della vicenda. L’escamotage di cui sopra diviene più un mero dispositivo catalizzatore di un processo che non attecchisce a dovere. Misura afferente a un’altra stagione, di lotte politiche, con l’Arte svilita a scarno rimedio, tale solo se asservita ad un messaggio politico e/o sociale rilevante.

Chiaro che non siano queste le tensioni che agitano Ghiaccio, eppure il déjà-vu lì s’annida, pronto a trasmettere rimandi involontari. Qualcosa di analogo, sebbene ben diverso, accade in Io, Arlecchino, altro film italiano recente, in cui uno spettacolo teatrale funge da step indispensabile nell’ottica del rapporto padre-figlio.

Apprezzabile è il tentativo di dare risalto ad uno degli innumerevoli nodi irrisolti della nostra storia recente, checché ne dica un tribunale. Manca però una certa incisività, la stessa che si perde al passaggio dalla cronaca alla finzione, smorzata anzitutto da un attaccamento al messaggio che a ben vedere incide sul processo di trasposizione. Perciò non dispiace di per sé l’idea di optare per una formula che si conosce, andando magari sul sicuro, bensì la mancata intensità che ne deriva. Questione di equilibri, che anche nel caso di Un posto sicuro vengono meno.

Ciò accade presumibilmente perché i personaggi, sopra tutti, mancano, banalmente, di personalità, sembrando per lo più parte dello scenario, subordinato all’argomento. Ma questa è la loro storia, e lo spettatore si rende presto conto di tale limite, sebbene non riesca magari a verbalizzarlo; allora monta quel senso d’insincerità, che non è certo tale da parte di chi ha lavorato al film, ma che al tempo stesso appare ineludibile per via di dinamiche dalla contenuta profondità. Perciò anche un attore dotato come D’Amore non può nulla quando si trova davanti un uomo distrutto, in preda al risentimento, che prova ad affogare tutto nell’alcol. Già a scriverlo emerge la difficoltà nel dare consistenza ad un profilo del genere. Non a caso, se in qualche modo il film non deraglia, è proprio grazie a D’Amore. Ricordando che si tratta peraltro di un’opera prima.

[rating title=”Voto di Antonio” value=”5″ layout=”left”]

Un posto sicuro (Italia, 2015) di Francesco Ghiaccio. Con Marco D’Amore, Giorgio Colangeli e Matilde Gioli. Nelle nostre sale da giovedì 3 dicembre.