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Cannes 2016, Ma Loute: recensione del film di Bruno Dumont in Concorso

Festival di Cannes 2016: Bruno Dumont opta ancora per la commedia, che è anche immaginifica e grottesca. Un’esuberanza non senza macchia, va detto, ma ad avercene

pubblicato 13 Maggio 2016 aggiornato 28 Agosto 2020 11:26

Siamo sul finire della Belle Époque, 1910. I Van Peteghems sono una ricca famiglia proprietaria della maestosa villa che prende il nome di Thyphonium, situata nel nord della Francia, non molto lontano dal Canale della Manica. Gente alquanto particolare, fumettistica quasi: André (Fabrice Luchini) cammina storto ed ha tutta una serie di goffi tic che sembrano oramai un tutt’uno con la sua personalità; Billie è un ragazzino o una ragazzina dal sesso di volta in volta interscambiale; tutti quanti non fanno altro che cadere.

No, non solo i Van Peteghems. L’area è infatti popolata da altri personaggi peculiari. Come i due poliziotti, novelli Stanlio e Olio (esilarante il lavoro sul suono dei movimenti plasticosi del grassone), recatisi sul posto per indagare su delle inspiegabili sparizioni. Tale mistero potrebbe avere a che fare con la famiglia di pescatori che vive in zona, di cui fa parte anche il giovane, tenebroso Ma Loute. Un minuscolo ecosistema insomma, che Dumont giostra a proprio piacimento, convogliandovi l’esuberanza dei suoi ultimi lavori.

È davvero un caso, infatti, che Rester Vertical e Ma Loute siano stati mostrati così vicini l’uno all’altro? Chi lo sa? Ma più ci si ragiona su questo mirabolante film di Bruno Dumont, più appare chiaro a chi scrive cosa non sia andato nel film di Guiraudie. Entrambe opere particolari, quasi a sé stanti, che puntano a qualcosa di leggermente diverso rispetto al mero raccontare. Storie fuori dal comune, che ci mettono a contatto con personaggi incredibili (letteralmente).

Ma Loute è concepito per essere nelle corde di pochi: troppo lungo, malgrado si tratti di appena due ore, troppo fuori di testa, il nuovo Dumont cambia atteggiamento (dalla rigorosa serietà dei suoi primi lavori all’umorismo contagioso di P’tit Quinquin) non tenore. Tra tutti, quell’ambiguità di fondo a tratti intrisa di misticismo, più netta in film come Hors Satan ma percepibile anche altrove.

È un autore maturo quello di Ma Loute, che dal crudo realismo dei suoi primi lavori ha oramai definitivamente oltrepassato quella linea che lo vuole diverso anche se in fin dei conti fedele al suo percorso. Questa sua ultima fatica è infatti una fiera dell’eccesso, controllato anche quando non lo sembra; laddove in precedenza riversava questo suo interesse verso un esasperato realismo, ora opera un procedimento più sofisticato. Emblema di questa nuova stagione per il regista francese può tranquillamente essere rintracciato nelle prove della Binoche o dello stesso Luchini, grottescamente teatrali dall’inizio alla fine.

Veleggiando dalle parti dello slapstick, in certi frangenti Ma Loute diventa pressoché irresistibile, perché già in quegli anni, agli albori del Cinema, ci fu chi capì qualcosa destinato a durare: gente che cade, inciampa o si becca una randellata in faccia faranno sempre sorridere, non importa quante volte veniamo sottoposti a certe cose. Non ci si abitua mai. Per il resto Dumont fa e disfa a proprio piacimento, enfatizzando questi suoi stravolgimenti, spacciati per sviluppi, con delle ricorrenti dissolvenze al nero, quasi a voler sistematicamente azzerare la storia e far finta di aver ricominciato da capo.

Siamo perciò nell’ambito dell’esperienza, decisamente cinematica, non solo per via dell’affascinante fotografia, senza filtri o grana, quasi a voler riconoscere che, per quanto folle, questa corsa è comunque lucida, definita come le sue immagini. All’inizio, diciamo per i primi venti minuti, sembra addirittura di trovarsi dinanzi ad un capolavoro, sensazione ahimè destinata a rientrare di lì a poco. Ma d’altra parte Ma Loute è opera troppo stratificata per potersi dolere di non avvicinarsi nemmeno ad una simile perfezione; difatti tutto è fuorché perfetto.

Esuberante, comico, cialtrone, contenutamente visionario, ma soprattutto quintessenzialmente filmico. Si accoda a generi che non si preoccupa di contraddire ogni due per tre, tanto che del giallo ne ha l’aspetto ma non la forma (il volto dell’assassino ci viene indicato praticamente subito); descrive le dinamiche di una piccola comunità, malgrado nel farlo si serva di un’insolita stravaganza; e per concludere, Dumont infila qua e là delle intuizioni degne di nota, alcune addirittura brillanti.

Si può non amarlo, addirittura odiarlo, come ogni giostra. Nulla di strano. Anche il più divertente degli ottovolanti può benissimo scoraggiare, e così è per Ma Loute, che a suo modo resta comunque un’attrazione degna di quei fenomeni da baraccone attraverso cui proliferavano i primi esperimenti di ciò che poi sarebbero diventati i film. In tal senso quest’ultimo lavoro di Dumont può validamente essere accostato a quelli oggetti lì: i curiosi dell’epoca non ne capivano l’utilità, forse nemmeno il senso ma, non si sa come, in qualche modo restavano colpiti. Ecco, chi scrive si è sentito un po’ così.

[rating title=”Voto di Antonio” value=”7.5″ layout=”left”]

Ma Loute (Francia, 2016) di Bruno Dumont. Con Fabrice Luchini, Juliette Binoche, Valeria Bruni Tedeschi, Jean-Luc Vincent, Didier Desprès, Laura Dupré, Brandon Lavieville, Cyril Rigaux ed Angélique Vergara. Nelle nostre sale da giovedì 25 agosto.

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