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Cannes 2016, Paterson: recensione del film di Jim Jarmusch in Concorso

Festival di Cannes 2016: un’ode alla quotidianità, ripetitiva, a tratti insopportabile, elevata dalla poesia e da un’idea di cinema semplice ma profonda come quella di Jim Jarmusch

pubblicato 16 Maggio 2016 aggiornato 28 Agosto 2020 11:21

Puntualmente, ogni mattina, Paterson (Adam Driver) si sveglia intorno alle 6:10; non ha bisogno di alcuna suoneria o pedante canzoncina. Così, semplicemente, a quell’ora apre gli occhi e prende atto che da dieci minuti sono passate le sei. Dà un bacio alla sua bella, guarda storto il cane (Palm Dog assicurata) e si dirige a lavoro. Qui un tizio di origine indiana, nonché suo collega, lo incalza coi suoi problemi, a cui Paterson sembra però non essere particolarmente interessato. Anche perché, prima che venga sistematicamente interrotto dal collega, Paterson è davvero sé stesso, non un conducente d’autobus. Scrive poesie.

Il mondo visto da Jim Jarmusch si arricchisce di un nuovo tassello, ancora intatto nel suo rifiutare compromessi, ancora sublime nel suo raccontarci l’esistenza attraverso la poesia. Perché questo è Paterson, una poesia visiva che segue l’ordinaria esistenza di un giovane indeciso sul da farsi. È inevitabile accostare il protagonista a Jarmusch stesso: poesie come quella sulla scatola di fiammiferi potrebbe recitarla benissimo lui, così come sempre lui potrebbe essere quello che ingoia a forza una torta a base di cheddar pressoché immangiabile.

E dire che, come sempre, il regista di Only Lover Left Alive, si serve di pochi elementi; quanto alla struttura, Paterson descrive una settimana del suo protagonista, i cui giorni si avvicendano in maniera ciclica, a tratti ripetitiva. È la quotidianità di buona parte delle persone che sono vive in questo momento, per lo più chiamati a non fare nulla se non trascinarsi fino al giorno successivo, e così via. Una sola cosa riscatta questo incedere così triste e francamente insostenibile, ovvero la poesia: «per metà sono qui, l’altra metà di me scrive poesie».

Jarmusch ci vuole dire che la cosa più difficile da fare rimane sempre una, ossia restare fedeli a sé stessi, o per meglio dire, a ciò che si deve essere. Non urla, non si sbraccia. Paterson vive ciò che gli accade in un atteggiamento di abbandono che è di per sé poetico; non rassegnazione, perché le contrarietà le abbraccia anziché sbatterci la testa. Potremmo addirittura rinominarlo Patternson, in quanto film di pattern, modelli che si ripetono, sempre uguali ma mai identici. Riferimenti che spaziano da un settore all’altro, taluni sfuggenti, ambigui, tutt’altro che immediati, come dev’essere la poesia. L’ossessione per l’accostamento del bianco e del nero da parte della sua ragazza, le coppie di gemelli nelle quali incappa, l’odio del suo cane verso di lui, l’indiano pieno di problemi; sono tutte misure che non hanno un senso in ottica strettamente narrativa ma che eppure contribuiscono a creare senso.

Un’ode alla vita di tutti i giorni, nei suoi più minuscoli ed apparentemente insignificanti risvolti; quante volte Paterson ascolta le conversazioni dei suoi passeggeri, per dirne una? E a quale funzione dovrebbe mai assolvere una discussione sul primo anarchico di Paterson (New Jersey), un immigrato italiano, tale Bresci? L’Italia ricorre più volte nel film, con un’immagine di Dante o una menzione di Petrarca; riferimenti che, come tutti gli altri, alti o bassi che siano, hanno funzione di contorno, senza il quale però la portata principale non avrebbe il medesimo sapore.

VI è pure qualcosa di vagamente coeniano nell’assurdità di certi passaggi, che non sono mai forzati, fermi a un passo dal divenire surreali. Ma è Jarmusch proprio in ragione dell’essere, questo film, così personale, unico. Quello che vediamo è ciò che vive quella parte di Paterson dedita alla poesia, che in certi casi deve mescolare immagini, oppure sovrapporvi le parole. I versi che di tanto in tanto possiamo leggere servono a questo, non a caso vengono sempre integrati in quei frangenti in cui non sta accadendo nulla; e se qualcosa accade è perché viene evocata proprio da quei versi.

Qualcuno potrebbe perciò avere da ridire sull’assenza di dramma, sul fatto che in Paterson non si voglia stravolgere alcunché: il suo protagonista è spettatore quanto noi, non coltiva alcuna ambizione specifica, non deve risolvere alcun conflitto, niente di tutto questo. Il punto è che la poesia è sentimento, sensazioni, idea, intuizioni; non è mai definita, come invece accade col racconto. Ecco perché, a differenza di quest’ultimo, non può essere vincolata da regole di struttura ma va lasciata fluire. Ed il modo che ha questo cineasta di vedere le cose è talmente peculiare che lasciarvisi andare apporta una piacere rigenerante.

[rating title=”Voto di Antonio” value=”9″ layout=”left”]
[rating title=”Voto di Gabriele” value=”9″ layout=”left”]

Paterson (USA, 2016) di Jim Jarmusch. Con Adam Driver, Golshifteh Farahani, Kara Hayward, Sterling Jerins, Jared Gilman, Luis Da Silva Jr, Frank Harts, Rizwan Manji, Jorge Vega, William Jackson Harper e Masatoshi Nagase.

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