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Venezia 64: terzo giorno di Gabriele

Ce ne fossero di più di film come quelli di De Palma ed Haggis, a ricordarci (che non fa mai male) che la guerra in Iraq è anche più improponibile di quello che già comunemente si sa. Entrambi in concorso, raccontano in modo diverso una realtà che non dev’essere nè scordata nè manipolata. Il primo

1 Settembre 2007 12:00

Ce ne fossero di più di film come quelli di De Palma ed Haggis, a ricordarci (che non fa mai male) che la guerra in Iraq è anche più improponibile di quello che già comunemente si sa. Entrambi in concorso, raccontano in modo diverso una realtà che non dev’essere nè scordata nè manipolata. Il primo fa il film che mai ti saresti aspettato, e la prima impressione è un po’ di spaesamento: Brian De Palma non più manierista e, incredibile, col digitale? Magia del cinema.

Il suo Redacted, magnificamente documentato e costruito su una serie di vari punti di vista a testimoniare i vari modi di raccontare la guerra con il video e i media (un soldato americano con la sua videocamera, una giornalista francese coi suoi servizi, un canale islamico, ed anche Internet), a prima vista sembra asciutto, ma nasconde in realtà benissimo tutta la tecnica per cui il regista è diventato famoso: ci sono ancora i piani sequenza (ma questa volta quasi tutti statici), ci sono gli split-screen (dopotutto le pagine dei blog contengono video che occupano una sola parte dello schermo), e c’è un uso della colonna sonora particolare, con musiche da Barry Lyndon e un’autocitazione da Vittime di guerra. Di quest’ultimo riprende il tema principale, ossia lo stupro di una ragazzina da parte di alcuni soldati americani, per parlare però, schierandosi, della crudezza di questa guerra in particolare. E a testimoniarlo ci sta un finale agghiacciante, con immagini reali di crimini e bestialità di guerra, che lascia tutti in silenzio, ma anche questo comunque “redacted”, come ha detto il suo stesso regista: in parole povere, tagliuzzato e censurato.

Ed Haggis ci riporta ancora in Iraq, con un Tommy Lee Jones, patriottardo e guerrafondaio, in cerca del figlio, che sarebbe dovuto rientrare a casa dopo il congedo. La scoperta del cadavere del figlio, fatto a pezzi e bruciato, lo condurrà in un viaggio alla ricerca della verità, che lo porterà ad aprire gli occhi per sempre.

Inizia in modo inquietante, e sembra davvero di essere in un film reazionario: bandiere americane a go-go, frasi razziste, esaltazione della guerra. Ma l’impressione è sbagliata: anche Haggis si schiera, e non poco. Il suo In the Valley of Elah è cinema americano classico, diretto in modo lineare e senza sbavature, sorretto da una buona sceneggiatura che a volte richiama Eastwood (quella meravigliosa inquadratura finale…) e da attori in forma. Prende inevitabilmente, e ci si può anche commuovere; anche perchè Haggis alterna sapientemente momenti più calmi e tragedia, con qualche immagine cruda che colpisce. Chi ne ha più bisogno ovviamente è l’America stessa, che chissà se vorrà almeno nominare la pellicola agli Oscar… Lunghissimi gli applausi.

E passiamo al primo film italiano in concorso, Nessuna qualità agli eroi di Paolo Franchi: un fiasco abbastanza deprimente, purtroppo. Se ne La spettatrice (personalmente comunque un po’ irrisolto) il ritmo calmo riusciva a lasciar spazio ad un minimo d’interessante tensione psicologica, qui si gioca ancora di più, tra psicologia e filosofia spicciola: il risultato non è solo noioso, ma anche abbastanza imbarazzante. E poi… vogliamo parlare delle scene di nudo che tanto avrebbero fatto scandalo? Certo, Germano si presta gentilmente due-seconde-due ad una scena con il membro in erezione, ma che senso ha al fine della narrazione? Si ha la sensazione di un’inutile provocazione fuori tempo massimo che non colpisce (ma ancora ci si scandalizza a vedere un po’ di corpicino umano?) e funge da solo riempitivo per un film senza ritmo e senza emozioni. E c’è chi ha criticato il bellissimo film di Ang Lee, con le sue scene di sesso che ci dovevano essere per forza… Insomma, non spariamo ancora sulla croce rossa: il primo film italiano è piaciuto a quattro gatti, punto. Ed è inspiegabile come sia finito nella lista dei film in corsa per il Queer Lion!

Ed eccomi ai miei due primi film della sezione Orizzonti. Geomen tangyi sonyeo oi (With a Girl of Black Soil) del coreano Jeon Soo-il: tipico film da festival, senza infamia e senza lode. Oggetto strano, tra delicatezza e denuncia (il protagonista si ammala sul posto di lavoro), soffre di un certo ritmo abbastanza piatto, ma si fa seguire comunque senza irritare, ed ha alcuni momenti riusciti. Si passa poi a Searchers 2.0 di Alex Cox: anche questo oggetto stranissimo (vabbeh, si sa che Orizzonti offre una panoramica sull'”altro”, e necessario, cinema), un road movie sulle tracce del western e di Leone. Ha momenti divertenti, alcune battute riuscite, ma arranca un po’ ed ha una fotografia digitale sinceramente non troppo esaltante. In ogni caso, la gente fuggiva un po’ dalla sala…

Bene, e per i cari lettori ecco un nuovo momento-rosicone: durante la visione di Searchers 2.0 il sottoscritto era in sala col regista Alex Cox, gli attori, ma soprattutto col grande Gregg Araki. Avvistati George Clooney ed Eli Roth. E poi a cena sempre il sottoscritto ha avuto un sussulto quando si è visto a due tavoli di distanza un certo Ken Loach. Sì, ce l’ho l’autografo, sta sul mio programma dei film…

A domani con le prime di Rohmer e Loach, ma prima di lasciarvi due curiosità: alcuni si sono lamentati per una simil-bestemmia in Sleuth di Branagh (che pena… era detta in modo scherzoso e non esplicito), e i distributori di Cassandra’s Dream hanno portato le proiezioni del film da cinque a due. Salutiamo Woody, ma non con troppa simpatia: pare che in questa decisione stupida ci sia anche il suo zampino.

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