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La canzone del mare: recensione del film d’animazione candidato agli Oscar

Attingendo al folklore irlandese, La canzone del mare del regista Tomm Moore dà vita all’incantevole La canzone del mare, gioiello d’animazione che segue la lezione di Miyazaki reinterpretandola però in chiave europea

pubblicato 5 Giugno 2016 aggiornato 28 Agosto 2020 10:39

Le selkie sono creature mitologiche, foche in grado di trasformarsi in esseri umani. Una di queste sposa un uomo, da cui ha due bambini, Ben e la piccola Saoirse. Solo che il parto di quest’ultima si rivela mortale per la madre, inghiottita dal mare per dare alla luce la sua secondogenita. Prima di morire, Ben ha ricevuto una promessa da parte della madre: «sarai un ottimo fratello e per questo saprai prenderti cura di tua sorella».

Song of the Sea (titolo originale del film) è uno di quei film d’animazione come raramente se ne vedono, ubriacati come siamo dalla congerie di operazioni a catena di montaggio, composta da film che tentano di emulare maldestramente certe produzioni Disney, Pixar o chi per loro. Non stupisce infatti che uno dei riferimenti del regista Tomm Moore sia Il mio vicino Totoro di miyazakiana memoria; da quel capolavoro lì La canzone del mare trae la sua corroborante ambiguità, il suo giocare coi miti locali, per lo più irlandesi in questo caso. Ma anche il gusto per una narrazione che vada oltre le forme convenzionali, sebbene una storia vi sia e non sia affatto difficile coglierla.

Ma come tutti i miglior lungometraggi di animazione, anche questo procede per suggestioni, sfumando sempre i contorni. È Mito perché La canzone del mare ci parla di un viaggio, quello che Ben compie un po’ per sé un po’ per salvare qualcuno o qualcosa; eroe chiamato ad un compito per il quale il nostro è da principio del tutto inadeguato, insicuro, spinto però al tempo stesso da una forza esterna, che lo protegge e lo guida. Questi ed altri elementi pongono il film di Moore sul piano del Mito riadattato, ovvero quel processo che parte da racconti tramandati ed opportunamente riproposti in forme più moderne.

Tutto si regge sul precario equilibrio della commistione tra leggenda e realtà, che costantemente si sovrappongo fino quasi a coincidere: da un lato il mito del gigante Mac Lir, a cui la madre Macha, il gufo-strega, ha sottratto la capacità di provare sentimenti per amore di non vederlo più soffrire, trasformandolo così in pietra; dall’altro la storia della nonna di Ben, che opera in maniera analoga col padre del giovane protagonista. In mezzo le peripezie dei due fratelli: Saoirse è una selkie ma in questa storia non è che la chiave di volta, il grimaldello, per così dire, che consente a Ben di portare a termine la sua missione.

Il rapporto tra i due fratelli è di una tenerezza struggente, dapprima contraddistinto dalla scontrosità con cui Ben tratta Saoirse, emarginata e vilipesa dal fratello, eppure sempre lì a cercare di accattivarsene l’amore. Molti dei significati di questa storia passano da lei, dal suo mutismo (la piccola non riesce a parlare), che contempla una delle lezioni che La canzone del mare intende poeticamente impartirci, sull’inefficacia della parola, addirittura la sua inutilità laddove non sia riutilizzata: all’inizio del film la madre insegna al figlio una canzone in una lingua evidentemente desueta; siamo oltre la magia, quelle parole, recitate secondo una precisa pronuncia e con una specifica intonazione, sono sacre.

Il Mito muove sempre dal concetto di sacro, e la storia de La canzone del mare non è da meno. Molteplici sono gli elementi che andrebbero analizzati, come il cane Cú, il gruppo di foche che trascina Saoirse, il Grande Seanachai, il vecchio dalla barba talmente folta e lunga da riempire una caverna e di cui ogni capello racchiude una storia. Moore cerca di evitare un andamento troppo contemplativo, ecco perché alcune parti sembrano leggermente tirate mentre altre ci passano davanti troppo velocemente. Ma la sua non è una storia da capire, bensì una di quelle da cui lasciarsi destabilizzare.

Certi messaggi sono più accessibili di altri, come quello relativo ai cosiddetti cattivi sentimenti, come rabbia, tristezza ed altri che implicano sofferenza. In un’epoca, la nostra, così spietata verso questa tipologia di emozioni, declassate al rango di “sentimenti negativi”, dire che non esiste niente di più falso è d’obbligo. Tuttavia, se è difficile farlo in contesti “adulti”, ancora di più lo è in un ambito come l’animazione, così fortemente influenzata da questa pedagogia alienata e alienante. Chi se lo stesse domandando, esatto… si tratta di un processo analogo a quello operato dagli autori di Inside Out, meno la simpatia ed il tenore tipico dei film Pixar.

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Ma qui siamo su un altro livello. Già il tratto, i colori si pongono in netta contrapposizione rispetto all’onda di computer grafica alla quale veniamo sottoposti da anni a questa parte; i disegni sono fatti a mano, secondo uno stile apparentemente più povero eppure funzionale, dolce. Chi ha familiarità scorgerà una certa somiglianza con certi videogiochi in cel shading, come The Legend of Zelda: The Wind Waker. Ma ciò che conta è che quasi subito ci si dimentica dello stile, a tal punto si riesce ad entrare nel mondo in cui si svolge la vicenda di Ben e Saoirse.

Opere come La canzone del mare vanno ammirate e sostenute senza se e senza ma. Perché basate su un modo di fare animazione sempre più marginalizzato e perciò più difficile da proporre e portare avanti; perché abbiamo bisogno, in quanto spettatori, di ripulirci dalla confusionaria mole d’immagini artificiose e senz’anima alle quali siamo sottoposti (specie i più piccoli); perché, semplicemente, vi è un’estrema necessità di far fondo alla saggezza di storie antiche, da cui bisogna attingere in particolar modo la verità di cui si fanno veicolo. Questa è la componente che va preservata e tramandata a tutti i costi, poiché, concedetemi l’enfasi, su questa nostra capacità sta o cade la nostra Civiltà, che è tale solo se in grado di tenere vivi i suoi miti, le sue storie fondative. Auspicando un futuro in cui tante piccole Saoirse riescano inspiegabilmente a cantare i versi di quella antica canzone che nessuno ha loro insegnato, ristabilendo il ponte tra i due mondi a beneficio di tutti e ciascuno.

[rating title=”Voto di Antonio” value=”8″ layout=”left”]

La canzone del mare (Song of the Sea, Irlanda/Danimarca/Belgio/Lussemburgo/Francia, 2014) di Tomm Moore. Con Brendan Gleeson, Fionnula Flanagan, David Rawle, Pat Shortt, Jon Kenny e Lisa Hannigan.

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