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Il problema di chiamarsi Ghostbusters: alcune considerazioni sulla commedia di Paul Feig

Alcune considerazioni sul reboot di Ghostbusters, debole a prescindere da un’eredità che non fa che acuirne i difetti

pubblicato 26 Luglio 2016 aggiornato 28 Agosto 2020 08:34

Tanto rumore per nulla. Non mi ha particolarmente scaldato la querelle tra detrattori e difensori a priori del film di Feig, sia per l’oggetto del contendere (le protagoniste) sia perché non si può scrivere e/o dire così tanto su un film che non si è ancora visto. Certo, nel cosmo dei social funziona così; dinamiche che la produzione di Ghostbusters ha peraltro cavalcato anche troppo bene.

Entrando però nel merito, ora che il film l’abbiamo visto, che dire? Non esiste ragione per cui Ghostbusters (2016) debba servirsi di questo titolo, se non al fine di sfruttare un logo ed un nome passati alla storia come due delle migliori commedie americane di sempre. Non bastassero delle battute, sketch e situazioni che per lo più non fanno ridere, tutt’al più sorridere in alcuni casi, è proprio l’approccio al progetto che lascia perplessi.

Ghostbusters è un caposaldo, una saga composta sì da due sole parti, ma sufficienti a generare un lascito pesantissimo. Onde evitare equivoci, non metto in discussione la possibilità di tornarci mediante sequel o reboot, a patto però di avere delle idee chiare su come riprendere il discorso e rendere il tutto ancorato al concetto originale offrendo al tempo stesso una variante in linea coi tempi.

Pensateci. Come è stato fatto notare, negli ultimi anni due delle saghe più celebri di sempre, quella di Star Trek e Star Wars, sono state riproposte. Piacciono, non piacciono; poco importa. Ciò che non si può negare è che il restart sia avvenuto con criterio, a fronte di un lavoro che ha dovuto tener conto del gravoso retaggio, ed il risultato è lì a testimoniarlo a prescindere dalle opinioni personali.

Si passi a questo Ghostbusters. Giusto il fan service, ché già Lucas dovette farne le spese per aver pensato il contrario… ma come? Il miglior cameo è quello del defunto Harold Ramis, il che è tutto dire. Tutti gli altri lasciano l’amaro in bocca per il modo in cui vengono integrati, quasi delle figurine che di fatto ci passano davanti come delle gloriose comparse e nulla più. Scelta però in linea con l’operazione, che quasi con sprezzo intende drasticamente rompere ogni legame col passato.

Verrebbe quasi da credere perciò che certi preventivi latrati non fossero poi così superficiali, e che il discorso inerente alle protagoniste donna rappresenti il vero fulcro della questione. D’altronde non si può negare che il mettere le mani avanti abbia in qualche modo sortito i propri effetti, tanto che in giro si leggono opinioni contraddistinte da una prudenza sospetta: di Ghostbusters (2016) s’ha parlarne bene, punto, o comunque non male.

A confermarmi indirettamente l’ipotesi appena adombrata, per chi crede in certe cose (e chi vi scrive ci crede), è l’esito beffardo per cui il personaggio più riuscito è quello di Chris Hemsworth, in versione bellissimo ma stupidissimo così come molti l’avrebbero inconsciamente voluto in Blackhat. Lui sì che fa ridere sebbene, a differenza delle quattro protagoniste, non vanti alcun background da attore comico; non per niente il merito va anzitutto dato a chi il suo Kevin l’ha scritto.

I problemi tuttavia restano. Il film di Paul Feig è una blanda commediola, con l’aggravante di essersi serviti di un marchio che significa qualcosa di ben diverso rispetto all’uso che ne è stato fatto. E per rendersi conto della portata del progetto basta operare un semplice ragionamento: se questo film non si fosse intitolato Ghostbusters si sarebbe comunque risolto in una modesta commedia con qualche trovata divertente (paradossalmente proprio grazie alle protagoniste, in particolar modo la McCarthy e la Wiig); al contrario, il macigno di cui al titolo, ha sortito gli effetti opposti, affossando ulteriormente un ritratto di per sé poco ispirato, i cui riferimenti ai due film di fortunata memoria appaiono nettamente infilati a forza.

In sostanza il marchio, che sta avendo senza dubbio un ruolo determinante al botteghino, all’atto pratico è l’elemento che più di tutti ha penalizzato questo progetto. Da un lato la necessità di mantenere qualche ponte, per quanto traballante; dall’altra il desiderio di scostarsi quanto più possibile, facendo peraltro leva sulla pseudo-necessità, che tale non è, di buttarla in caciara con un gratuito e fuorviante scontro tra i generi (sessuali).

Quanto detto però non è avulso da un’altra verità, ossia che è inutile immaginare questo film con un altro titolo. Certo, la tentazione di pensare a cosa sarebbe venuto fuori qualora gli sceneggiatori avessero avuto mano libera pur partendo dall’idea di queste quattro donne che vanno a caccia di fantasmi c’è; senza vincoli, con la possibilità di osare, citando in maniera più scaltra… sarebbe stata un’altra cosa. Peccato invece che il titolo e l’intenzione di stravolgere furbescamente ciò a cui rimanda abbiano rappresentano il presupposto, la base su cui costruire tutto il resto. Un edificio scricchiolante e nemmeno tanto bello a vedersi.