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Blair Witch: recensione in anteprima

Opera fuori tempo massimo, Blair Witch è talmente acerbo da vanificare anche quelle poche intuizioni su cui si poteva plasmare qualcosa di più interessante, che ne giustificasse l’idea

pubblicato 15 Settembre 2016 aggiornato 30 Luglio 2020 05:46

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Imprescindibile The Blair Witch Project, fenomeno che nel 1999 si è abbattuto sul cinema come un uragano, ponendosi come antesignano di un filone che solo anni dopo avrebbe preso piede in maniera significativa, il fenomeno dei cosiddetti found-footage. La storia la conosciamo tutti o quasi: tre ragazzi si recano a Burkittsville, nel Maryland, per girare un documentario sulla strega di Blair, vecchio nome di quella cittadina. Film straniante, gettato nella mischia con intelligenza (pare si tratti del primo film promosso pressoché interamente su internet), che riscosse consensi incredibili a dispetto di un budget irrisorio. Fatto davvero con poco, circa 60 mila dollari, fu questa la vera bomba (sebbene nello stesso periodo Christopher Nolan girava Following con seimila sterline, ma i due progetti non sono nemmeno paragonabili quanto ad incidenza).

Blair Witch è il seguito diretto di quel primo, fortunato lavoro, raccontando la vicenda di sei ragazzi che vogliono scoprire cosa realmente sia accaduto nel primo film. In particolare è James Donahue, fratello di Heather, scomparsa ventidue anni prima, a voler conoscere la verità. Perciò James, insieme alla sua ragazza ed una coppia di amici, si dà a questa spedizione attraverso cui non sanno nemmeno loro cosa intendono documentare. Sul posto trovano due ragazzi della zona, che in cambio del loro aiuto chiedono di poter prendere parte alla spedizione.

È strano che un progetto del genere venga riesumato, tanto più oggi. Emergono infatti dei nodi alla base di un prodotto come Blair Witch, che purtroppo il film, lungi dallo sciogliere, non fa che confermare. Oggi il concetto di found-footage non porta in dote il medesimo impatto che ebbe diciassette anni fa, tanto più che legarsi alle premesse di un titolo così significativo è scelta che andava ponderata per bene. Strano a dirsi ma nulla o quasi il film di Adam Wingard riesce a trasmettere neanche in termini evocativi; proponendo una formula peraltro ultra-convenzionale, per cui l’horror consisterebbe anzitutto nel saltare dalla sedia per via di urla o gesti inconsulti estemporanei. Nulla resta dell’angoscia e l’atmosfera del prequel, anche perché si percepisce troppo una certa rarefazione.

Per non complicarsi troppo la vita, infatti, si sceglie di dotare ciascuno dei componenti del gruppo di una micro-camera da indossare a mo’ di auricolare così da simulare la prospettiva in prima persona; poi certo, c’è anche una reflex ed un drone, giusto per restare in linea coi tempi. Si tratta però di una scelta infelice, poiché integra una dimensione che non appartiene a questa storia e che di fatto non funziona: in The Blair Witch Project avevamo questa sola telecamera che seguiva gli eventi, limitando la nostra prospettiva, agendo perciò per sottrazione; non a caso era tutto ciò che non vedevamo a fare la differenza. Qui si passa da una visuale in prima persona all’altra, integrando un’esperienza estranea, depotenziante, che compromette pressoché in toto l’atmosfera.

D’altra parte questo seguito non ha un granché da dire su altri fronti: la storia è semplice, ricalcando in pratica quella del 1999, con questi ragazzi rimasti intrappolati nella foresta, mentre attorno a loro avvengono cose inspiegabili. Le riprese per lo più caotiche fanno il resto, in negativo purtroppo; sì perché altra cifra di questo film sta nella sua incapacità di dosare certe misure, come urla, cose che appaiono all’improvviso e, per l’appunto, la frenesia delle immagini mentre si scappa o si è inseguiti da qualcuno o qualcosa.

Insomma, Blair Witch si pone per lo più come un espediente teso a cavalcare la fortuna di un film che ha fatto storia, distorcendo il concetto stesso di found-footage, posticcio e poco proponibile alla luce delle tante produzioni che hanno fatto parecchi passi in avanti rispetto a quel primo, fondamentale esperimento. Anche quando si salta in aria si ha l’impressione che non lo si faccia per i “giusti” motivi. Segnando peraltro un risvolto interessante, ossia il voler far passare per un film low budget un progetto che non lo è affatto, con tutte le tangibili ripercussioni del caso. Opera fuori tempo massimo, talmente acerba da vanificare anche quelle poche intuizioni che eppure non mancano, malgrado la vera sfida consistesse nel giustificare l’idea di farne un sequel.

[rating title=”Voto di Antonio” value=”3″ layout=”left”]
[rating title=”Voto di Carla” value=”3″ layout=”left”]

Blair Witch (USA, 2016) di Adam Wingard. Con James Allen McCune, Valorie Curry, Callie Hernandez, Brandon Scott, Wes Robinson e Corbin Reid. Nelle nostre sale da mercoledì 21 settembre.

Festival di Venezia