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Moonlight: recensione in anteprima

Tre momenti della vita di un afro-americano nella periferia di Miami: bullismo, omofobia, genitori assenti. Ma anche un romanticismo inaspettato e universale. Barry Jenkins ricostruisce così in Moonlight la figura maschile sul grande schermo. Per molti motivi, il film dell’anno.

pubblicato 11 Ottobre 2016 aggiornato 30 Luglio 2020 05:07

Nel 2008 il fenomeno indie chiamato Mumblecore stava già ormai perdendo la sua carica modaiola, nonostante fosse all’apice della produzione in termini numerici. Si sarebbe comunque trasformato in altro, e avrebbe lanciato diversi giovani registi americani che tuttora oggi lavorano come registi di film e serie TV.

Chi più chi meno, ognuno ha dimostrato di avere una voce propria pur lavorando sulle stesse cose e con stile obiettivamente simile. Uno dei pochi film che è stato iscritto di dovere nel ‘genere’ ma che si è distinto per essere andato oltre le regole e gli stilemi anche piuttosto ammuffiti del Mumblecore fu Medicine for Melancholy.

Era un boy-meets-girl ambientato a San Francisco con protagonisti un ragazzo e una ragazza afro-americani. Era la prima volta che in un film del Mumblecore i protagonisti non erano bianchi. Ci voleva infatti un regista nero per raccontare una storia strettamente di persone dalla pelle nera, o per farle almeno vedere sul grande schermo.

Il regista era Barry Jenkins, e per dirigere Moonlight, il suo secondo film, ci ha messo circa otto anni. Sono cambiati i tempi: siamo in un momento finalmente adatto perché ora certe storie vengano finanziate e le diverse voices trovino modo di vedere i loro progetti prodotti. Siamo nel periodo post-12 Anni Schiavo, di #BlackLivesMatter, e di A24, che dopo essersi costruita un curriculum distributivo da far invidia si è buttata nella produzione per la prima volta proprio con Moonlight, annusando l’andazzo e facendo centro.

Si capisce subito che Moonlight è il progetto di una vita per Jenkins, che chiede allo spettatore di investire tutto il suo cuore, cervello e stomaco in questa esperienza. La prima cosa tra le molte, persino troppe che si possono dire del film è che è incentrato sull’accettazione dell’identità, sia di sessualità che di razza. Il film lavora sulla costruzione di questa identità attraverso la consapevolezza del protagonista di sé stesso e di cosa sta diventando, mentre le condizioni esterne fanno il loro sporco lavoro.

Ma Moonlight fa anche una cosa che non si è mai vista al cinema prima d’ora, o almeno non così: de-costruisce e ri-costruisce la figura maschile, e lo fa attraverso una riappropriazione di un immaginario (in questo caso black e addirittura gay) che viene restituito in una forma – ed è quasi paradossale notarlo – inedita nel cinema che conosciamo.

Siamo nella periferia di Miami. Un ragazzino soprannominato Little vive con una madre assente, una prostituta dipendente da droga, ed è vittima di bullismo tra i suoi compagni di scuola. Trova un inaspettato punto di riferimento in un uomo e nella sua compagna, disposti ad accoglierlo in casa e a dargli più attenzioni di sua madre.

Ritroviamo il ragazzino cresciuto: il suo vero nome è Chiron, ed è ancora vittima di bulli a scuola. Solo l’amico Kevin gli dà le giuste attenzioni e gli è vicino. Ma la legge della giungla non si fa attendere: l’ultima versione di Chiron – che anni dopo si fa chiamare Black – è decisamente diversa da quella che ci si poteva aspettare, anche se il cerchio in qualche modo si chiude…

Jenkins lavora innanzitutto di cliché, di stereotipi che poi sono intrinseche linee guida delle comunità che rappresenta. È un film sulla Storia, perché è nel tempo che certe idee e certe modalità di vita si sono cementificate, e allo stesso tempo nella Storia, perché è arrivato il momento di sovvertirle, quelle idee e quelle modalità. Lavorando sul concetto di identità che muta e si costruisce, Jenkins descrive tre momenti cruciali nella vita del protagonista, e mentre lo fa il film cambia e si trasforma assieme a lui.

Prima più virato sul dramma familiare, poi più tipicamente coming of age LGBT, Moonlight più di ogni altro film fino a oggi cattura con una forza spettacolare e un impeto che scuote le budella cosa significa essere nero e gay negli States. Sotto la luce della luna, la pelle dei ragazzi neri sembra blu: pare una frase da colonialismo rampante, e invece lo ribadisce con orgoglio Jenkins stesso nel film.

Lo ribadisce perché è orgoglioso della propria pelle, ma allo stesso tempo non ha paura di denunciare le problematiche e le contraddizioni interne alla propria comunità. Il destino di molti afro-americani è già per molti segnato, perché il loro percorso passa esattamente per gli stessi punti: droga, genitori assenti, bullismo e violenza. Bisogna sopravvivere, in questa America maschilista e machista, altrimenti si muore. E questa situazione fortifica i cliché di cui prima e intrappola la sessualità secondo modalità brutali.

Jenkins descrive tutto questo in Moonlight, e la vita di Chiron ha tutte le carte per stonare e risultare un po’ un piagnisteo sul grande schermo. Ma è regista di sensibilità acuta, e tra scene potentissime (la ‘vendetta’ di Chiron) e dettagli che non passano inosservati (l’urlo della madre ripetuto due volte, prima ‘silenziato’ e poi fatto sentire in tutta la sua spaventosa potenza), arriva lì dove una traiettoria del genere non faceva prevedere.

Se Moonlight riesce appunto a decostruire e ricostruire la figura maschile, lo fa innanzitutto con un romanticismo purissimo. Dramma familiare, coming of age, tematiche razziali: tutto vero e tutto utile per farci vivere la vita di Little/Chiron in prima persona. Ma è nell’ultimo atto, con l’apparizione di Black, che Jenkins fa il miracolo, tirando fuori un segmento che è un puro concentrato di sentimenti (e persino attesa, e flirt…) così come lo era Medicine for Melancholy.

Moonlight è sì un ritratto doloroso e a tratti crudele di cosa voglia dire nascere afro-americani negli States, certo. Ma alla fin fine ci dice anche qualcosa di importante sull’amore, sulla ‘prima volta’, e sui ricordi e l’impatto che tutto ciò può avere sulle persone. Anche per questo Moonlight riesce ad essere davvero specifico e radicato nella terra in cui è ambientato e allo stesso tempo ad avere una risonanza universale e commovente, a cui ci si relaziona a prescindere da tutto. Il film dell’anno, senza se e senza ma.

[rating title=”Voto di Gabriele” value=”10″ layout=”left”]
[rating title=”Voto di Federico” value=”8″ layout=”left”]

Moonlight (USA 2016, drammatico 110′) di Barry Jenkins; con Ashton Sanders, Mahershala Ali, Naomie Harris, Janelle Monáe, Andre Holland. Sconosciuta la data d’uscita italiana.

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