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Lady Macbeth: recensione in anteprima

Tratto da un racconto breve di Nikolaj Leskov, Lady Macbeth cambia Paese e propone un’alternativa all’immaginario della donna in epoca vittoriana, con una sensuale e pericolosa Florence Pugh

pubblicato 5 Maggio 2017 aggiornato 28 Agosto 2020 06:41

Nella campagna inglese di metà ‘800 la diciassettenne Katherine (Florence Pugh) viene “riscattata” attraverso un matrimonio forzato dal dispotico padre del marito, quest’ultimo più grande della giovane non di poco. La novella sposa vive come internata in quella villa del countryside britannico, dove il padrone detta legge con mano severa. La risposta ad un clima così oppressivo non si fa attendere: la ragazza infatti comincia una relazione inevitabilmente clandestina con lo stalliere, liberandosi letteralmente di tutto e tutti coloro che sbarrano la strada alla sua indipendenza, perseguita con agghiacciante determinazione.

Si basa su un voluto anacronismo il debutto di William Oldroyd, il quale, in merito a Lady Macbeth, apertamente dichiara che «nella letteratura di quel tempo donne come Katherine di solito soffrono in silenzio, nascondo i loro sentimenti o si tolgono la vita. Ma in questa vicenda abbiamo una giovane protagonista che combatte per la sua indipendenza e decide il proprio destino, anche attraverso la violenza». Va subito detto che il regista attenua i toni in questa sua dichiarazione; la protagonista del film, bella e brava, persegue questa sua ambizione sfrenata di libertà con una risolutezza che è violenta di per sé, al di là delle pieghe di violenza fisica vera e propria che questa vicenda assume poco alla volta.

A rendere il tutto ammissibile, o per così dire “credibile”, c’è però lo stile oltremodo asciutto, rigoroso attraverso cui Oldroyd racconta questa perversa parabola. Alternando efficacemente riprese con macchina a mano ad inquadrature fisse, ciò che viene fuori è uno sviluppo inesorabile, che sbatte in faccia allo spettatore episodi durissimi con un’estemporaneità spesso disarmante. E viene per forza di cose in mente il cinema di Haneke, le cui peculiarità s’intravedono piuttosto chiaramente in questo film d’esordio. Va detto che Oldroyd trova nella Pugh un complice ideale: la sua spavalderia ed il suo fascino oscuro sono pari solo alla sua malvagità, sebbene ciascuno potrà leggere nell’atteggiamento e nelle azioni della giovane ciò che gli pare, siano essi il prodotto di una società patriarcale al capolinea, siano invece il rimando ad una sorta di ideale femmineo arcaico, in cui la donna si fa ricettacolo di morte e perdizione (d’altronde chiunque viene a contatto con Katherine non ne esce bene, no di certo).

Proprio in virtù di quanto scritto sopra, è probabile che il regista propenda più per la prima che per la seconda interpretazione, ma il fatto stesso che tale personaggio dia adito anche alla seconda è elemento da tenere in considerazione. Non è difficile capire come mai un film del genere abbia attecchito così bene nella comunità dei critici, specie quelli anglofoni: il tema così marcatamente attuale, sul pezzo a dispetto dell’ambientazione, misto ad un’asciuttezza esasperante pur senza sfociare nell’arty duro e puro lo rendono a priori un prodotto affabilissimo per certa platea.

Ed è vero che il film faccia leva sul fascino della sua protagonista, che però cede qualcosa sul fronte del mistero; si capisce infatti dalle primissime inquadrature che Katherine non è una ragazza ordinaria, che in lei insomma c’è qualcosa che non va. Questo limita il suo sviluppo, che di fatto non c’è, relegando perciò la tragedia ai soli eventi, senza assistere ad un reale cambiamento del e nel personaggio. Per intenderci, Elle, che si sofferma su una storia sì parecchio diversa ma comunque analoga, sta altrove: anche lì la Huppert è tutto, ma ciò che promette il suo personaggio viene mantenuto per l’intero arco del racconto, alla fine del quale non è davvero possibile affermare con certezza se sia folle, malvagia o cos’altro.

Qui Oldroyd tenta di “depistare” sul finale, con la giovane in stato interessante e la creatura che sembra scalpitare malgrado le poche settimane dal concepimento. Ma d’altronde è inutile aspettarsi che a quel punto il regista smetta di prendersi sul serio, sia perché, in fondo, questa sua seriosità è funzionale alla storia, sia perciò a ragione del fatto che il tenore quello è per tutto il film (altra grossa differenza rispetto al sopracitato Elle). Nondimeno, Lady Macbeth compensa certe sue note stilistiche sospettosamente familiari ed ostentate con un’eleganza formale che ben si addice all’oscurità della vicenda, tenendo botta fino all’ultima scena: sovente, per un motivo o per un altro, non ci riescono nemmeno i cineasti più navigati. A prescindere da certe valutazioni, dall’importanza di per sé relativa (allo spettatore frega poco di quanti film abbia girato un regista), Oldroyd dimostra senz’altro di avere qualcosa dire su questa storia, senza necessariamente caricarla di metafore e significati reconditi.

[rating title=”Voto di Antonio” value=”7″ layout=”left”]

Lady Macbeth (Regno Unito, 2016) di William Oldroyd. Con Florence Pugh, Cosmo Jarvis, Paul Hilton, Naomi Ackie, Christopher Fairbank