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Cannes 2017: Rodin – recensione del film di Jacques Doillon

Festival di Cannes 2017: trascurabile biopic sul celebre scultore francese, Rodin è ancora più marginale alla luce della sua partecipazione in Concorso

pubblicato 25 Maggio 2017 aggiornato 28 Agosto 2020 05:49

Uomo d’altri tempi, dagli appetiti smodati, roba che oggi non solo non esiste ma nemmeno sarebbe più possibile. Voglio dire… v’immaginate un’artista che rincorre le proprie modelle per tutto lo studio puntando le loro grazie, dopo essere state accuratamente scelte con l’implicita ma non per questo meno chiara ragione che dopo il dovere sarebbe arrivato il piacere? Tra fine ‘800 ed inizio ‘900 le cose stavano diversamente ed il temperamento dell’artista anzi sembrava dovesse assecondare certi vizi, connaturati al genio, per chi l’aveva.

Auguste Rodin è stato un grande scultore, nonché un grande artista, e questo biopic di Jacques Doillon racconta in larga parte del rapporto con la sua musa Camille Claudel, burrascoso, viscerale, come tutto ciò che in un ambiente del genere si faceva, diversamente non valeva la pena manco farlo. Ambientato quasi interamente in interni, nel periodo preso in esame Rodin sta lavorando sulla Porta dell’inferno: ha da poco compiuto quarant’anni e per il nostro si tratta di un’occasione più unica che rara, la prima commissione di questo spessore, dopo anni di diffidenze e sottovalutazioni. A tal proposito, in una scena Rodin s’incontra in questa sontuosa villa con altri mostri sacri dell’Arte francese, ossia Monet e Cezanne: quest’ultimo non ne vuole più sapere, a tal punto è urtato dal mancato riconoscimento. Ma Rodin insiste, dicendogli che per quelli come loro la cosa più importante è il lavoro, lavorare; è lì che devono trovare senso e realizzazione.

Ci sono altre di queste uscite che sanno d’aforisma, tipo quando il protagonista, interpretato da Vincent London, dice di aver invertito la gerarchia dei materiali, ponendo l’argilla all’apice. Esternazioni che stanno bene in un saggio, mentre il loro ripescaggio in un contesto del genere, se non ben supportato, rischia di risultare controproducente, cosa che di fatto avviene. Doillon, non senza ragione, è evidentemente attratto da questo personaggio, dalla sua voracità, che prima ancora che alla sessualità è indirizzata alla materialità: tocca tutto il suo Rodin, scruta le superfici, vuole sempre mettere le mani dovunque, nude. L’idea di contatto poteva essere un discreto punto di partenza su cui intavolare un discorso che chissà dove avrebbe potuto portare. Niente di tutto ciò.

Rodin è a dire il vero un biopic piatto, mera evocazione di certi passaggi ed episodi senza un punto di vista, un approccio che ne giustifichi l’esistenza. Doillon non riesce a far convogliare alcuna idea, al che viene spontaneo domandarsi se ve ne siano o meno; non per forza astrusi ragionamenti o grandi domande, ma anche una maggiore incisività in relazione a questo perverso rapporto con Camille, che invece ne esce quasi pulito, come se i due fossero degli adolescenti alle prime armi. Al di là dell’aderenza storica, perché mostrare qualcosa senza poi preoccuparsi d’infondervi alcun appeal? È come se si fosse volutamente scelto di abdicare alla rappresentazione per limitarsi alla mera esposizione, per quanto questo sia possibile nell’ambito di una messa in scena, che comunque è lì, s’intende.

Il bello è che di spunti non ne mancano; una delle scene più interessanti, dove la mano di Doillon si avverte, è quando Rodin fa avanti e indietro da una stanza all’altra: in una c’è la scultura d’argilla, nell’altra il modello. Una donna della servitù chiede ragione di questo continuo movimento ed il nostro spiega che la cosa, banalmente, ha a che fare con la memoria. Peccato che la questione si chiuda lì, ennesimo episodio espunto da un momento a caso; non c’era nemmeno bisogno di approfondire più di tanto il processo creativo dell’artista, ma se al suo interno si trovano spunti per potere arricchire uno sviluppo diversamente piatto e sorprendentemente privo d’interesse, perché non approfittarne?

Insomma, a tratti Rodin è finanche frustrante, il che, per un film di due ore, è un problema. Un film che non si regge sulle proprie gambe di suo, ma che ne esce ulteriormente ridimensionato alla luce del suo inserimento in Concorso, senza dubbio forzato. Uno di quei lavori che non riescono ad avere dalla loro nemmeno quella reazione che di solito viene riservata a chi ha osato troppo, a chi ha fatto il passo più lungo della gamba ma almeno c’ha provato.

[rating title=”Voto di Antonio” value=”4″ layout=”left”]

Rodin (Francia, 2017) di Jacques Doillon. Con Vincent Lindon, Izïa Higelin, Séverine Caneele, Edward Akrout, Serge Bagdassarian, Magdalena Malina, Zina Esepciuc, Régis Royer, Patricia Mazuy e Lea Jackson. Concorso.

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