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Blade Runner 2049: recensione in anteprima del film di Denis Villeneuve

Villeneuve prende le dovute distanze, confezionando un sequel credibile. La notizia, per così dire, è che Blade Runner 2049 si offre più come oggetto da osservare che come esperienza da vivere, la sua innegabile sontuosità croce e delizia nella misura in cui ammalia ma al contempo distoglie dalla poca sostanza

pubblicato 3 Ottobre 2017 aggiornato 28 Agosto 2020 01:27

[quote layout=”big” cite=”Gaff]It’s too bad she won’t live! But then again, who does?[/quote]

«Blade Runner è come una una chiesa», ha recentemente dichiarato Denis Villeneuve per dare ragione non soltanto del suo amore verso il celeberrimo film di dell’82 ma anche per risalire all’origine della sua passione per il cinema, quel momento in cui decise di diventare regista. Romanzata o meno che sia l’affermazione, quanti di noi, in un modo o nell’altro, sono figli di quel Ridley Scott lì? Quanti sono sbocciati contemplando unicorni e origami, magari senza nemmeno comprenderne a pieno il significato di tutta prima?

Blade Runner 2049 non fa lo gnorri rispetto alla pesante eredità di cui si fa carico, tentando in tutti i modi di non venirne al contempo schiacciato. Opera del nostro tempo, che si confronta con tematiche che il tempo invece lo trascendono; e come sempre a fare la differenza è il modo in cui vengono maneggiate. Sono trascorsi circa trent’anni da quando l’androide Roy si lasciava morire sotto la pioggia; una pioggia battente, che lava e forse cancella qualcosa che invece andrebbe messo al riparo. A Tyrell è subentrato Wallace (Jared Leto), un altro visionario con idee ancora più estreme su quale debba essere il futuro. Di mezzo c’è quello che viene chiamato «blackout», ovvero dieci mesi che hanno portato indietro di qualche secolo l’umanità, al netto ovviamente di ciò che è stato possibile mantenere. Per dire, un receptionist racconta della madre, addolorata perché non potrà più vedere le foto dell’adorabile figlio quand’era piccolo per via del fatto che tutto ciò che era stato salvato in supporti tipo hard disk è andato irrimediabilmente perduto in quei dieci mesi. Non viene mai del tutto chiarito né il come né il perché, ma il mondo di 2049 è il risultato di quell’avvenimento lì, che lo ha a conti fatti riplasmato.

Ma dei Blade Runner, beh, di quelli c’è ancora bisogno. Non tutti i vecchi modelli di Nexus sono stati «ritirati», ed allora serve ancora qualcuno che li stani e porti a termine quanto Deckard e compagnia bella avevano a loro volta fatto illo tempore. K (Ryan Gosling) è un androide di più recente fabbricazione che si occupa della faccenda, agli ordini del tenente Joshi (Robin Wright); è lui a fare una scoperta singolare, ossia rinvenire presso un campo d’allevamento di vermi una cassa con all’interno i resti di una donna. Una donna incinta, morta a seguito del parto. Diventa questo il caso da risolvere.

2049 è nei dettagli, non tanto nelle seppur macroscopiche svolte narrative. E da come ci si relaziona a questi dettagli dipende in buona sostanza il modo in cui recepiamo un film così meravigliosamente assurdo e “sbagliato” a priori. La coerenza filologica con l’universo del primo Blade Runner appare infatti, almeno ad una prima occhiata (qual è quella di chi ha visto il sequel per la prima volta e quella soltanto), encomiabile: forse i pannelli di cui ci si serve dispongono di una definizione eccessiva rispetto a trent’anni prima, ma in linea di massima nulla sembra fuori posto, dalle pistole agli oggetti di uso comune, i tastierini per aprire le porte e quant’altro. Ci si crede al legame tra il contesto attuale e quello passato, il che dimostra peraltro quanto fosse avanti il primo Blade Runner, che già armeggiava con cose futuristiche pure per la nostra epoca come gli ologrammi.

Emerge insomma un lavoro sotto l’aspetto visivo scrupoloso, attento in ogni sua parte, e che coinvolge tutti i dipartimenti, dalla scenografia ai costumi, passando per il design d’insieme, amalgamato con insolita perizia. Ci arriveremo alla fotografia, certo, allorché toccherà fare un discorsetto sull’accoppiata Villeneuve-Deakins, mentre per il momento è opportuno spostarsi su uno dei versanti più temuti, incerti ed effettivamente discutibili in capo a questo sequel.

Blade Runner 2049 è infatti un’opera in tutto e per tutto figlia del proprio tempo, per quanto s’impegni, in parte riuscendoci, a mascherare o per meglio dire sublimare la cosa. Come? Con il già citato impianto visivo, che gode di una cura appunto quasi maniacale. Tuttavia dov’è che questo lavoro tradisce il suo esserci contemporaneo? Proprio su quel fronte che ha reso Blade Runner oggetto di culto ed epitome del cyberpunk distopico lato cinema, ossia nelle implicazioni tematiche. Mesi addietro è stato scaraventato nelle sale di tutto il mondo il live action di un prodotto che a sua volta deve tanto al film di Scott, ossia Ghost in the Shell; discusso, laddove non vituperato, al di là del suo porsi come palese scimmiottamento dell’opera originale (sia esso il fumetto, i film o le serie TV), il suo vero limite non era, come alcuni ci hanno suggerito, il non aver conseguito una propria specificità, bensì aver semplificato ai minimi termini un discorso ben più articolato e per forza di cose esoterico, accessibile perciò solo a fronte di una certa confidenza con argomenti del genere. Limite connaturato, in larga parte annunciato, ma che comunque incide.

Inutile allora girarci intorno: un processo del genere si consuma pure in 2049. Villeneuve certamente non è Sanders, ed infatti tale componente è sostanzialmente la più rilevante, l’unica che ci consente senza riserve di porre i due film sue due livelli distinti e separati. Quanto all’accennata semplificazione, beh, ahinoi siamo lì. Anche in 2049 si avverte la scarsa fiducia nello spettatore, il quale viene imboccato ad ogni piè sospinto, finendo con lo svilire tracce tematiche che avrebbero dovuto filtrare in maniera diversa, deducibili mediante strumenti che non fossero la mera parola. Ed invece il tenente Joshi che parla di ricordi ed anima non è tanto diversa dal dottor Ouelet (Juliette Binoche) che fa lo stesso in Ghost in the Shell, giusto per dirne una. Se si fosse optato per una cosa del genere trent’anni fa, non avremmo avuto origami e unicorni, né quasi avrebbe avuto senso per tutto questo tempo domandarsi se Deckard fosse o meno un replicante. Ed è questo che manca a pressoché tutte le produzioni di un certo livello, cioè costringerci alla fatica di ragionare, pur non dimenticando di farcele vivere certe storie; ed invece basta una parola, due al massimo per precludere irrimediabilmente il piacere della scoperta, ché ci sono cose che soltanto a pronunciarle perdono di significato. Non per nulla gli spunti più interessanti li ricaviamo, per esempio, dal rapporto tra K e l’ologramma di Joi, l’intelligenza artificiale interpretata da Ana de Armas, che ci viene presentato così per com’è, senza didascalie o aggiunte di sorta; alla fine il personaggio con cui s’instaura un legame più forte è proprio quest’ologramma anziché un qualunque androide o umano, costituendo questa traccia l’unica, vera introduzione degna di nota (o quantomeno la più sensata, anche perché comunque integrata al discorso che già veniva fatto col primo Blade Runner).

A luci accese, t’accorgi allora che tutto il lavoro di Villeneuve è teso a compensare questo trattamento, tutt’altro che incidentale, bensì oltremodo consapevole già in sede di scrittura. E spiega pure perché ad un progetto del genere il regista canadese si sia accostato con lo stesso spirito con cui ha affrontato un film come Sicario anziché quello di Arrival, sebbene 2049 sia più affine al secondo che al primo. Dopo la parentesi mainstream, quanto a stile e tenuta, Villeneuve torna infatti ad un approccio che dà adito ad un risultato decisamente moody, ossia incentrato su sensazioni ed atmosfera. Il nuovo Blade Runner tende infatti a rifiutare certi stilemi da film hollywoodiano «per tutti», concedendosi spesso e volentieri pause e silenzi che in fondo sono la negazione del mainstream così per come s’intende oggi. Solo che è più una questione di tono che di senso, ed è sintomatico che tanto sia bastato per tirare fuori dal cilindro Tarkovskij, che di dilatazione dei tempi ne sapeva più che qualcosina benché per motivi sinceramente più nobili e sensati di così.

Quanto invece lo straordinario apporto di un Deakins in stato di grazia (e quando non lo è stato? Su, a ‘sto giro dateglielo ‘sto Oscar) e la direzione di Villeneuve si “limitano” a fare è conferire dignità ad un’idea di per sé troppo fragile, forse a questo punto non più procrastinabile, eppure così ardita e spericolata da non essere all’altezza della sua ambizione (ancora? per sempre?). E come non di rado succede, ci sono episodi, situazioni, elementi che in qualche modo fungono da indizi: quei resti di donna di cui all’inizio di questo nostro scritto, infatti, assumono quasi il significato di reliquia, resti sacri e perciò potenzialmente sacralizzanti al contatto. Materia incandescente, certo, ma non è affatto fuori luogo impegnare qualche briciola di Teologia per vagamente illustrare questo processo che consta di carne e spirito; non per niente aleggia sulla trama l’antico fenomeno dell’incarnazione, non come semplice divertissement filosofico bensì come vero e proprio elemento narrativo.

Non ci si fraintenda: 2049 è un buon film, forse addirittura molto buono. Grande? Beh, magari il tempo ci contraddirà, ma purtroppo non sembra averne i connotati. Solo immergendosi da capo a piedi nel presente è possibile scorgere nel lavoro di Villeneuve e soci un prodotto che a suo modo spicca, quantomeno per via di un approccio diverso rispetto alla quasi totalità degli sforzi che vengono profusi nell’ambito della fantascienza odierna. Se proviamo a distanziarci un pochino, cercando di acquisire una prospettiva più ampia, ecco che il bagliore di Blade Runner 2049 si fa più debole, e non per via della lontananza. E questo, lasciando da parte l’impresa impari alla quale in fondo questo sequel non era nemmeno chiamato, pena nascere già morto, ossia vivere del confronto col suo predecessore, quantunque tale presupposto vi sia e finisca col condizionare. 2049 è dunque un film sontuoso, al cui interno ci si trovano cose notevoli, che non siamo granché abituati a vedere, con quel dettaglio su un occhio che apre le danze in maniera velatamente programmatica. In fondo, allora come adesso, è l’ambiente a dirci tutto: lì il caos e la costruita bruttura di una futuristica Los Angeles, sovrappopolata, sporca e appiccicosa, a cui però corrisponde una paradossale vitalità; qui le fredde ancorché accattivanti geometrie minimaliste, che eppure “servono” proprio per prendere le dovute distanze dalla fonte, ma che tuttavia rimandano a qualcosa che invece di vivo ha poco. Anche questo, un beffardo segno dei tempi?

[rating title=”Voto di Antonio” value=”7″ layout=”left”]
[rating title=”Voto di Federico” value=”9″ layout=”left”]
[rating title=”Voto di Gabriele” value=”9″ layout=”left”]

Blade Runner 2049 (USA, 2017) di Denis Villeneuve. Con Harrison Ford, Ryan Gosling, Jared Leto, Ana de Armas, Robin Wright, Mackenzie Davis, Dave Bautista, Barkhad Abdi, Lennie James, David Dastmalchian, Edward James Olmos, Elarica Johnson e Sylvia Hoeks. Nelle nostre sale da giovedì 5 ottobre 2017.