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Avengers: Infinity War – recensione del film dei fratelli Russo

Punto di non ritorno, con il denso Avengers: Infinity War l’asticella viene alzata come mai fino ad ora. E dalla parabola di Thanos passa infatti non solo il futuro della Marvel al cinema

pubblicato 25 Aprile 2018 aggiornato 27 Agosto 2020 20:54

Per scrivere Infinity War, a quanto pare, c’è voluto un pool di ventisei sceneggiatori. I titoli di coda, come sempre per progetti di questa entità, ci sottopongono ad una fitta rete di nomi e cognomi che dura non meno di sei/sette minuti buoni, scorrendo peraltro a buon ritmo. Insomma, questi due vaghi accenni per dire che la posta in gioco, stavolta, va al di là dell’Universo Cinematico Marvel; c’è un modo di concepire la filiera produttiva che si trova a un punto di non ritorno, quale che sia l’esito, ossia lo step successivo. Al netto di un budget non ancora del tutto chiarito (si parla di 3-400 milioni di dollari comunque), abbiamo a che fare con un progetto monstre, un’opera che è espressione di un’industria che, in tal senso, ha raggiunto un picco, e chissà se sia o meno quello definitivo.

Come d’altronde affermano dalla sede, Avengers: Infinity War rappresenta la summa, tappa finale di un percorso durato dieci anni, in cui tutte le varie diramazioni convergono, intendendo con questo non soltanto gli archi narrativi bensì tutto il coté di soluzioni e misure escogitate nel corso oramai di diciotto film (con questo diciannove). Ed il risultato, nemmeno troppo beffardamente, dà l’esatta dimensione di un esperimento che comunque resterà nella storia, perché contrassegna una stagione di Hollywood come nessun altro fenomeno appunto nell’ultimo decennio: vuoi per la continuità, vuoi per l’impatto, vuoi per le dimensioni, etc.

La minaccia ultima, a questo punto, dev’essere all’altezza delle premesse, e nel Thanos di Josh Brolin, va detto, gli autori trovano il profilo giusto. Giusto suo malgrado, ecco, perché, sulla falsa riga di quanto accennato poco sopra, pregi e difetti rispetto a come viene costruito e dunque proposto questo villain riassumono in pratica vizi e virtù dell’intera saga. Un personaggio di spessore contenuto, relativo, a prescindere dalle differenze con la controparte fumettistica: Thanos è tuttavia un “cattivo” sui generis, che non è mosso da certa malvagità banale, quasi ludica, di altre figure analoghe che l’hanno preceduto. Nella sua ricerca delle sei gemme che lo renderebbero l’essere più potente dell’universo, in pratica un dio, non vi è dell’inspiegabile, il solo gusto di arrecare danno, oppure motivazioni sbrigative basate su quei soliti tre/quattro sentimenti (vendetta, rivalsa, odio, ambizione e via discorrendo). Quella di Thanos è una missione che quest’ultimo avverte come un fardello, una vocazione a tutti gli effetti.

Lo dice senza mezzi termini a un certo punto, quando a più riprese esclama: «ho già sfuggito una volta il mio destino», come a dire che un simile errore non lo commetterà più, costi quel che costi. Ed Infinity War, com’era lecito suppore, è praticamente la parabola di questo personaggio qui, del suo conflitto, dei suoi ripensamenti, dei suoi errori e delle sue scelte terribili. Tuttavia è questa una traccia, La traccia nel caso di specie, che rimane sepolta dalla necessità principe: lo spettacolo. Ogni singola componente è concepita in funzione di tale aspetto, che è il centro, il criterio base su cui tutto si concentra ed a cui tutto deve per forza di cose ricondurre. Non vi è un solo dipartimento che abbia anche solo potuto pensare di regolarsi diversamente, e in bocca al lupo ai fratelli Russo che hanno dovuto orchestrare un simile concerto.

Perciò il più grande pregio di questo lavoro è anche il suo più grande difetto: Infinity War è tanto, troppo e tutto in una volta. Una giostra asfissiante, che incalza con ogni singola inquadratura, ogni singola scena, ogni singolo personaggio, ogni singola linea narrativa. C’è una ricerca spasmodica di epicità che sa quasi di hybris, quest’anelito a un grandeur che non può che poggiare su uno sfoggio pressoché esasperato, perché effettivamente solo in quel contesto lì è possibile aspirare a tanto. Mai così nettamente la Marvel si è contraddistinta per un dispiegamento di forze siffatto, che si sostanzia anche, se non soprattutto, in una dimostrazione di forza emblematica, come ad urlare al mondo: «ecco di cosa siamo capaci». E solo loro. Tanto che nel miscelare toni alti e leggeri, ed era inevitabile, non ci si può aspettare la stessa resa di altre occasioni, quell’equilibrio tra il greve e il ridanciano che è un po’ la formula base di quasi tutti i Marvel in sala.

Ecco allora che certi numeri assumono consistenza: tutti quegli sceneggiatori debbono preoccuparsi non di dare profondità o, più complesso ancora, uniformità a tutto ciò, bensì aggiungere spessore, ma proprio in termini di quantità: mettere, mettere e mettere, ché sarà poi qualcun altro a preoccuparsi della sintesi, di quel lavorio di cosmesi teso a scartare ciò che è di troppo. Ma in ciò che è di troppo, magari, è proprio lì che si trovavano frammenti importanti, tasselli senza i quali quella specifica vicenda tende a sgonfiarsi, perdere vigore. È evidente che questo non sia un problema che, a priori, impensierisce più di tanto chi deve pensare a quel tutto che è Infinity War: la dinamica sembra infatti consistere nel far funzionare quanto basta, un minimo proprio, ciascun arco, ciascuna storia nella storia, in ragione del fatto che tanto, a un certo punto, si deve lasciar spazio ad un’altra, e poi un’altra ancora.

Siamo così sballottati da un terreno a un altro, da un mondo a un altro. E questo, nel bene e nel male, è l’esperimento più interessante; interessante, certo, ma anche provante, come se, anziché uno solo, davanti a noi ci fossero più schermi e fossimo più o meno costretti a seguirli tutti contemporaneamente, pena perderci qualcosa, o per lo meno avere “paura” di non cogliere qualcosa che potrebbe rivelarsi fondamentale. L’esempio del Luna Park è calzante, e forse lo è anzitutto in relazione a quanto scritto sopra circa la posta in gioco: Infinity War alza l’asticella come solo nell’ambito di un progetto che consta di così tante tessere e si staglia su così tanti anni era possibile fare. Al tempo stesso lo fa quindi esplorando possibilità di narrazione conosciute solo in parte, inaugurando perciò l’epoca di un nuovo mondo. Non si sa fino a che punto queste nuove terre si riveleranno fruttifere, se da lì potrà sorgere una nuova civiltà; quel che è chiaro è che, allo stato attuale, così com’è, il caos regna sovrano.

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E che si sia davvero sulla soglia di un nuovo evo, ce lo dice in parte anche l’epilogo del film, in parte inatteso, senza dubbio insincero, proprio perché Infinity War matura pur sempre da un albero che ha dato sistematicamente certi frutti. Il punto è che stavolta la Marvel corre un rischio incredibile, perché mai si è spinta così in là nel giocare coi sentimenti, o per meglio dire, con certo sentimentalismo; ben sapendo, con ogni probabilità, che un simile approdo non può che essere provvisorio, un cliffhanger da ribaltare come se si fosse in una serie TV. L’ultimo Avengers, certo, fa anche questo: tira in ballo logiche che trascendono il fenomeno che è, aprendosi al dibattito, anzi, essendo probabilmente espressione del dibattito. E confermandosi anche in tal senso pienamente figlio della propria epoca, sebbene si tratti di un figlio dispettoso, che intende sbarazzarsi del contesto culturale entro il quale è cresciuto per darsi toto corde a quel che sarà o potrebbe essere.

Mai come in questo caso, allora, sarà sintomatica la risposta del pubblico, a prescindere da come i fan recepiranno il trattamento riservato ai singoli supereroi (in una scala secondo cui Thor e Scarlet sono i più sgravati, mentre Black Panther sta all’essenzialmente inutile base della piramide). È infatti pronto, dicevamo, il pubblico, ad assimilare un prodotto del genere? Siamo già, dunque, a quello stadio evolutivo in cui il metabolismo dello spettatore/utente/fruitore contemporaneo si è adattato così bene da reggere due ore e mezza di bombardamenti visivi, se non addirittura (ma sì, diciamolo) cognitivi di tale portata? L’impressione è che dalla risposta (o risposte) a tali domande dipenderà il futuro dell’intrattenimento su larga scala, a prescindere dalle dimensioni degli schermi attraverso cui passerà.

[rating title=”Voto di Antonio” value=”6″ layout=”left”]
[rating title=”Voto di Federico” value=”7.5″ layout=”left”]

Avengers: Infinity War (USA, 2018) di Joe Russo ed Anthony Russo. Con Robert Downey Jr., Chris Hemsworth, Mark Ruffalo, Chris Evans, Scarlett Johansson, Don Cheadle, Benedict Cumberbatch, Tom Holland, Chadwick Boseman, Zoe Saldana, Karen Gillan, Tom Hiddleston, Paul Bettany, Elizabeth Olsen, Anthony Mackie, Sebastian Stan, Idris Elba, Danai Gurira, Benedict Wong, Pom Klementieff, Dave Bautista, Gwyneth Paltrow, Benicio Del Toro, Josh Brolin, Chris Pratt, Tessa Thompson, Jeremy Renner, Cobie Smulders e Vin Diesel. Nelle nostre sale da mercoledì 25 aprile 2018.