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Cannes 2018, Three Faces: recensione del film di Jafar Panahi

Festival di Cannes 2018: con la grazia che gli è propria, Jafar Panahi racconta il suo Paese, l’Iran, con curiosità e persino affetto anche e soprattutto limitatamente a quegli aspetti che non lo edificano

pubblicato 13 Maggio 2018 aggiornato 27 Agosto 2020 20:21

Behnaz riceve sul proprio smartphone uno strano video, in cui Marziyeh, spaventata, anzi disperata, dice di non poterne più, di essere stata ingannata da tutti, e che il non poter più perseguire il proprio sogno di recitare si è fatto insopportabile. Alla fine del video la vediamo prendere una corda ed impiccarsi. Behnaz, che invece è un’attrice già affermata, resta stravolta, ed insieme allo stesso Panahi, che interpreta sé stesso, si recano al villaggio della ragazza per cercare di capire cosa sia accaduto. Marziyeh infatti parla di un amico a cui ha chiesto aiuto, e d’altra parte non si capisce come Behnaz avrebbe potuto ricevere il video diversamente. Qualcosa non torna, perciò meglio indagare.

È da non credere quanti film riesce ad infilare Jafar Panahi girando il proprio in maniera clandestina, e già su questo ci si potrebbe soffermare per righe e righe. Si avverte un’urgenza, una necessità, una voglia di raccontare, di filmare, insomma di darsi a quel procedimento magico che è la creazione di un film nei suoi vari passaggi, che un film del genere non si vorrebbe smettere di guardarlo; vorremmo continuasse per ore e ore, con quel suo taglio documentaristico tradito solo dal montaggio, mentre la fotografia così intonsa ci suggerisce che lì qualcosa è avvenuto per davvero.

La prima parte è pressoché perfetta: seguendo gli stilemi del giallo, il modo in cui Panahi resta ancorato al proprio cinema inglobando certe meccaniche è encomiabile. Non appena arrivati al villaggio, infatti, Behnaz e Panahi sembrano atterrati su un altro pianeta, un ecosistema a sé stante, in cui vigono regole e consuetudini che i due forestieri non possono capire a pieno nemmeno allorché alcune di queste vengono loro illustrate. Giunti alla casa di Marziyeh un energumeno sbraita come un pazzo, lamentandosi di questa ragazza che ha deciso di studiare: «ora studia, dopo cos’altro s’inventerà?». Poco alla volta il regista iraniano vira su un altro territorio, anche se ancora non ci è dato capire che di lì a poco Three Faces diventerà direttamente un’altra cosa. Senza star lì a prodigarsi in poco opportune spiegazioni, il mistero viene meno e quel che resta sono dei ritratti, tutti finalizzati a comporre quel quadro che è la vita e le dinamiche di questo villaggio.

Panahi ha un tocco unico, una grazia innata nel tratteggiare dei profili a volte grotteschi, a volte poco comprensibili, in ogni caso sempre interessanti. Anche se, va detto, non c’è niente di davvero “difficile” in Three Faces ed il fatto che qua e là si possa dover cedere per via della mancata familiarità col contesto; qui il regista ci aiuta ponendo sé stesso e l’altra protagonista in una situazione analoga alla nostra, quasi da stranieri in patria. Panahi ha sempre tenuto a sottolineare di non essere un cineasta politico, ma non si può proprio fare a meno di pensare che qui stia parlando di sé stesso, della propria condizione in un ambiente che, non a caso, lo vuole “in disparte” a scontare una pena per reato d’opinione.

Eppure non è venuta meno in lui la curiosità, l’affetto si potrebbe dire, nei riguardi di gente che avverte pur sempre come la sua; per questo può concedersi qualche battuta sotto forma di skecth, prendendo di mira, in maniera del tutto innocua, senza malizia, certi tic e certe idiosincrasie degli abitanti di quel villaggio. L’abilità di questo regista nell’alternanza dei toni, dal leggero al più drammatico, senza mai sbavature, beh, si tratta di una qualità più unica che rara; l’apparente scioltezza, poi, con cui consegue i suoi obiettivi in tal senso fa ancora più specie. Solo che a questo punto verrebbe pure da chiedersi di chi siano le tre facce di cui al titolo.

Ebbene, due, in un modo o nell’altro, le abbiamo sempre sotto gli occhi, ossia Behnaz e Marziyeh; la terza non la vediamo mai ma la si cita spesso, per lo più come cattivo esempio redentosi nel tempo, ossia Shahrzad, una vecchia stella attiva prima della Rivoluzione, altro membro del villaggio. Tre facce di donna perciò, che è poi esattamente il discorso verso cui, per vie non tanto traverse, Panahi va a parare, parlandoci dell’Iran proprio a partire da come la cultura di questo Paese si relaziona con il gentil sesso non in astratto ma nella quotidianità. Non ha la pretesa, e questo pare altrettanto chiaro, di voler imporre una sola, possibile chiave di lettura; tanto più che, appunto, la “distanza” poco sopra evocata potrebbe essere recepita anche in funzione di questa difficoltà, di lui per primo, nel comprendere a pieno il fenomeno che con tanta delicatezza sta comunque tentando di descrivere, sebbene in piccola parte.

Un pezzo di cinema pregevole, che poteva addirittura essere ancora più grande se solo quel cambio di registro fosse intervenuto in maniera diversa. Non nego che possa essersi trattato di un mio problema ma ho patito il passaggio, almeno nei primi minuti, una sorta di destabilizzazione che non sono ancora sicuro sia stata del tutto cercata. Certo è che quel Panahi che si destreggia tra le pieghe del mistery ammalia, anche se per poco; l’altro, senza mezzi termini, rimane comunque un Panahi da tenersi stretto uguale, e ci mancherebbe pure. Lo stesso che continua, come in Taxi Teheran, ad osservare quello che c’è fuori da dentro l’abitacolo della sua macchina.

[rating title=”Voto di Antonio” value=”7.5″ layout=”left”]

Three Faces (Iran, 2018) di Jafar Panahi. Con Jafar Panahi, Behnaz Jafari e Marziyeh Rezaei. In concorso.

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