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Io Sono Leggenda: l’incipit del romanzo di Richard Matheson

Prima di guardarvi Io Sono Leggenda con Will Smith leggetevi il romanzo di Richard Matheson del 1954. O perlomeno fatelo dopo. Ma leggetelo.Oggi vi regalo l’incipit del romanzo, così tanto per farvi un’idea. Vi segnalo anche, per chi non lo sapesse, che Richard Matheson non è nuovo al mondo del cinema. Niente meno c’è lui

di carla
4 Gennaio 2008 08:24

io sono leggenda richard matheson Prima di guardarvi Io Sono Leggenda con Will Smith leggetevi il romanzo di Richard Matheson del 1954. O perlomeno fatelo dopo. Ma leggetelo.

Oggi vi regalo l’incipit del romanzo, così tanto per farvi un’idea. Vi segnalo anche, per chi non lo sapesse, che Richard Matheson non è nuovo al mondo del cinema. Niente meno c’è lui alla base di Duel, uno dei primissimi film di Steven Spielberg. Tanto per fare un titolo.

Tra i prossimi film tratti dai lavori di Matheson è in lavorazione The Box diretto da Richard Kelly con James Marsden, Cameron Diaz e Frank Langella e, fans tenetevi forte, è in produzione The Incredible Shrinking Man tratto dal meraviglioso romanzo Tre millimetri al giorno, cast e regia ancora sconosciuti.

“Dopo aver letto Io sono leggenda, ho capito che l’horror può apparire nelle periferie, nelle strade, e anche dietro la porta accanto”

Stephen King

RICHARD MATHESON
IO SONO LEGGENDA
(I Am Legend, 1954)

PARTE PRIMA
Gennaio 1976

Nei giorni come quello, in cui il cielo era coperto di nuvole, Robert Neville non era mai sicuro di quanto mancava al tramonto e a volte li trovava già nelle strade, prima di riuscire a rientrare in casa.
Se non avesse avuto tanta avversione per la matematica, avrebbe potuto calcolare l’ora approssimativa del loro arrivo; invece, si atte­neva ancora all’antica abitudine di regolarsi sul colore del cielo per stabilire la fine del giorno, e, nei pomeriggi senza sole, quel sistema non funzionava. Perciò, quando il cielo era grigio, non osava allonta­narsi troppo dalla sua abitazione.
Fece il giro della villetta nel cupo grigiore del pomeriggio; dall’an­golo delle labbra gli penzolava una sigaretta, che si lasciava dietro una sottile scia di fumo. Controllò ogni finestra per vedere se qualcuna delle tavole era staccata. Dopo gli assalti più violenti, molte assi ri­manevano scheggiate o danneggiate in altro modo e bisognava sosti­tuirle. Un lavoro che odiava. Ma quel giorno ne trovò solo una tra­ballante. Davvero una bella fortuna, si disse.
Terminato l’esame della facciata, andò in cortile per dare un’oc­chiata alla serra e alla cisterna dell’acqua. A volte cercavano di dan­neggiare la struttura di sostegno della cisterna o di piegare e rompere i tubi che venivano dalla pompa. A volte lanciavano sassi al di sopra dell’alta recinzione che circondava la serra e di tanto in tanto riusci­vano a sfondare la rete che la proteggeva in alto; allora Neville era costretto a sostituire qualche pannello di vetro.
Ma la cisterna e la serra, quel giorno, non apparivano danneggiate.
Rientrò in casa per prendere il martello e i chiodi e, nell’aprire l’u­scio, scorse la propria immagine nello specchio che aveva inchiodato sul pannello, un mese prima. L’immagine era distorta, lo specchio era incrinato. Al primo attacco, le taglienti schegge di vetro argenta­to sarebbero cadute a terra. “Cadano pure” si disse Neville. “È l’ulti­mo specchio che inchiodo qui fuori. Non servono a niente, gli spec­chi. Meglio appendere una collana d’aglio. L’aglio è sempre effica­ce”.
Scivolò lentamente nel denso silenzio del salotto, si diresse a sini­stra per imboccare il breve corridoio e poi ancora a sinistra per entra­re nella camera da letto.
Un tempo, l’arredamento di quella stanza era allegro e confortevole, ma a quell’epoca le cose erano molto diverse. Adesso, l’aspetto era funzionale e basta. Poiché il letto e l’armadio occupavano pochis­simo spazio, Neville aveva trasformato in laboratorio l’altra estremi­tà della stanza.
La parete era quasi interamente occupata da un bancone con il ri­piano di legno grezzo ingombro di una grossa sega a nastro, di un tor­nio da falegname, di una mola a smeriglio e di una morsa. Al di so­pra, sulla parete, c’era una mensola occupata da una distesa disordi­nata degli attrezzi usati da Robert Neville.
Prese un martello dal bancone e prese alcuni chiodi da uno dei ba­rattoli, tra quella baraonda. Quindi tornò fuori e inchiodò saldamen­te l’asse all’imposta. I chiodi inutilizzati li gettò tra il pietrisco vicino alla porta.
Per un poco ristette sul prato osservando da un lato all’altro, per tutta la sua lunghezza, la silenziosa Cimarron Street. Era un uomo al­to, Neville, sui trentasei anni, di tipo prettamente anglosassone, dai lineamenti comuni, a eccezione della bocca larga dal taglio deciso e dell’azzurro intenso degli occhi che scrutavano ora le rovine carbo­nizzate delle villette ai due lati della sua. Le aveva bruciate lui, per impedire a loro di saltare sul suo tetto da quelli adiacenti.
Dopo qualche minuto, trasse un lungo e lento respiro e rientrò in casa. Gettò il martello sul divano del soggiorno, poi accese un’altra sigaretta e bevve il primo sorso d’alcool della giornata.
Più tardi si costrinse ad andare in cucina per gettare nel tritarifiuti dell’acquaio gli avanzi di cinque giorni. Sapeva che avrebbe anche dovuto bruciare i piatti di carta e le posate, spolverare i mobili e puli­re i lavandini, la vasca da bagno e il gabinetto, cambiare le lenzuola e la federa del letto; ma non se la sentiva.
Perché era un uomo ed era solo e cose come quelle non avevano importanza per lui.

Era quasi mezzogiorno. Robert Neville si trovava nella serra a rac­cogliere un cesto di aglio.
All’inizio, l’odore di una tale quantità di aglio gli dava la nausea; il suo stomaco si era trovato in un continuo stato di rivolta. Ora quell’o­dore permeava la casa e i suoi abiti: a volte pensava di averlo perfino nella carne. Non lo notava quasi più.
Quando ebbe raccolto una quantità sufficiente di teste, rientrò in casa e le ammassò sul ripiano dell’acquaio. Come fece scattare l’in­terruttore sulla parete, la luce tremolò, poi si accese normalmente. Un sibilo di fastidio gli uscì dai denti. Il generatore faceva di nuovo i capricci. Avrebbe dovuto ancora tirare fuori quel maledetto manuale e verificare i conduttori. E, se fosse stato troppo complicato riparar­lo, avrebbe dovuto installare un nuovo generatore.
Furibondo, scaraventò un alto sgabello vicino all’acquaio, prese un coltello e sedette con un brontolìo di stanchezza.
Dapprima divise i bulbi in piccoli spicchi lunati. Quindi tagliò ogni spicchio rosato e membranaceo a metà, scoprendo i bulbi all’interno. L’aria si riempì dell’odore pungente e muschiato. Quando diventò troppo penetrante, accese il ventilatore e l’aspirazione ne diminuì l’intensità.
Allungò una mano verso lo scaffale per prendere un punteruolo. Fece dei fori in ciascuno dei mezzi spicchi, poi li legò tutti insieme con del filo metallico fino a confezionarne venticinque collane.
All’inizio, aveva appeso quelle collane alle finestre. Però, rima­nendo a distanza, essi le avevano prese a sassate finché Robert era stato costretto a coprire i vetri rotti con pezzi di compensato. Infine un giorno aveva tolto il compensato, inchiodandovi invece file rego­lari di assi. In tal modo aveva reso la casa un lugubre sepolcro, ma era meglio che vedersi volare i sassi nelle stanze tra una pioggia di fram­menti di vetro. E dopo aver installato i tre ventilatori, non stava poi troppo male. Un uomo poteva abituarsi a tutto, se vi era costretto.
Quando ebbe finito di legare le collane di aglio, uscì e le inchiodò sopra gli stipiti delle finestre, togliendo quelle vecchie, che avevano perduto gran parte del loro potente odore.
Doveva compiere quel lavoro due volte ogni settimana. Fino a che non avesse trovato qualcosa di meglio, quella era la sua prima linea di difesa.
“Difesa?” pensava spesso. “Per che cosa?”
Preparò paletti di legno per tutto il pomeriggio.
Li ricavava al tornio, da grossi picchetti cilindrici, segati in pezzi di una ventina di centimetri. Li lavorava con la mola finché non diven­tavano aguzzi come pugnali.
Era un lavoro faticoso e monotono: l’aria si saturava di polvere di legno dall’odore di bruciaticcio che gli riempiva i pori della pelle e i polmoni, facendolo tossire.
Eppure non gli sembrava di fare molti progressi. Per quanti paletti facesse, finivano sempre in brevissimo tempo. Le aste cilindriche di legno diventavano via via più difficili da trovare. Alla fine avrebbe dovuto passare al tornio stecche rettangolari. “Buffo, vero?” pensò irritato.
Era tutto molto deprimente e ciò lo convinse che doveva trovare un miglior sistema di procedere. Ma come poteva trovarlo, dal mo­mento che essi non gli davano mai la possibilità di fermarsi e pensare?
Mentre torniva i paletti, ascoltava dei dischi attraverso l’altopar­lante che aveva installato nella stanza da letto… la Terza, la Settima e la Nona Sinfonia di Beethoven. Era lieto di avere imparato molto presto, grazie a sua madre, ad apprezzare quel tipo di musica. Lo aiu­tava a colmare il terribile vuoto delle ore.
Dalle quattro in poi, il suo sguardo corse costantemente all’orolo­gio appeso alla parete. Lavorava in silenzio, le labbra strette in una li­nea dura, la sigaretta all’angolo della bocca, gli occhi fissi sulla punta tagliente che staccava il truciolo, riempiendo di polvere farinosa il pavimento.
Quattro e un quarto. Quattro e mezzo. Un quarto alle cinque.
Entro un’ora sarebbero stati di nuovo intorno alla casa, quei luridi bastardi. Appena la luce fosse calata.
Ritto dinanzi al gigantesco congelatore, Robert scelse la cena. I suoi occhi affaticati scorrevano dal mucchio delle carni alle verdure surgelate, dal pane alla pasticceria, dalla frutta ai gelati.
Si decise per due cotolette d’agnello, fagiolini e un barattolo di suc­co d’arancia. Tolse le scatolette dal congelatore e chiuse lo sportello con una spinta del gomito.
Andò poi verso le pile irregolari di barattoli ammucchiati fino al soffitto. Ne prese uno di succo di pomodoro, poi uscì dalla stanza che un tempo era stata di Kathy e che adesso era soltanto del suo stoma­co.
Attraversò lentamente il soggiorno, osservando la parete ricoperta per intero da una stampa. Raffigurava l’orlo di una scogliera, puntata verso un oceano verde, le cui onde tumultuavano e si frangevano so­pra neri scogli. Lontano, nel cielo limpido, bianchi gabbiani planava­no con il vento, mentre sulla destra un albero nodoso si sporgeva sul precipizio, i rami scuri stagliati contro il cielo.
Neville entrò nella cucina e gettò i cibi sopra la tavola: lo sguardo gli corse all’orologio. Venti minuti alle sei. Mancava poco.
Versò un po’ d’acqua in un pentolino e lo sbatté sopra il fornello. Quindi scongelò le braciole e le mise sulla graticola. A quel punto l’acqua già bolliva e vi gettò i fagiolini surgelati, poi li coprì pensando che doveva essere il fornello elettrico a sovraccaricare il generatore.
Tornato al tavolo, si tagliò due fette di pane e si versò un bicchiere di succo di pomodoro. Sedette e osservò la lancetta rossa dei secondi che si muoveva lentamente sul quadrante dell’orologio. Quei bastar­di sarebbero arrivati presto.
Dopo che ebbe finito il succo di pomodoro, si avviò alla porta d’in­gresso e uscì sotto il portico, scese sul prato e lo attraversò fino al marciapiede.
Il cielo si stava oscurando e l’aria si faceva più fresca. Guardò dai due lati di Cimarron Street, mentre la brezza pungente gli scompi­gliava i capelli biondi. Ecco ciò che non andava in quei giorni di nuvo­lo: non potevi mai sapere quando sarebbero arrivati.
Oh, be’, in fondo erano meglio delle vecchie tempeste di polvere. Con un’alzata di spalle, tornò indietro attraverso il giardino ed entrò in casa, chiudendo la porta a chiave e con il catenaccio e inserendo anche la pesante spranga. Quindi ritornò in cucina, girò le braciole e spense il fuoco sotto i fagiolini.
Stava per mettere il cibo sul piatto quando si fermò; i suoi occhi si volsero velocemente verso l’orologio. Sei e venticinque, oggi. Ben Cortman stava gridando: «Vieni fuori, Neville!»
Robert Neville sedette con un sospiro e cominciò a mangiare.