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Momenti di trascurabile felicità, recensione: la greve leggerezza di un discorso sulla vita

Prima ancora che nella sua morale, Momenti di trascurabile felicità risulta problematico rispetto al proprio argomentare, sotto cui rimane schiacciato. Una levità solo apparente che informa i temi così come il ritmo di un film tutt’altro che centrato

pubblicato 11 Marzo 2019 aggiornato 29 Luglio 2020 20:40


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La morte, si sa, non si lascia annunciare. Quasi mai. Succede così che Paolo (Pif), ingegnare palermitano, ci resta secco dopo l’ennesima volta che passa col rosso; sempre lo stesso semaforo, da sempre ignorato più per sport che altro. Giunto nel regno dei morti, Paolo si trova in questa grande sala d’attesa, in cui tutti aspettano il proprio turno non si sa bene per cosa. Quando tocca all’ingegnere, tuttavia, emerge un errore: non gli sono state difatti conteggiate tutte le centrifughe che ha bevuto, persino quelle allo zenzero. Le ha bevute controvoglia e questo qualcosa dovrà pur significare. Ed è così: uno dei funzionari del posto fa un conto e salta fuori che a Paolo è stata rubata “un’ora e mezza” di vita. Ma come solo un’ora e mezza? Lui s’aspettava un anno, forse addirittura dieci. Che ci fa con così poco tempo?

Com’è come non è, o quello o nulla, perciò il nostro “scende”, torna tra i vivi insomma, scortato dal funzionario (Renato Carpentieri) che aveva da principio commesso l’errore: adesso sta a Paolo trarre il massimo dal seppur risicato tempo che ha disposizione. Non bastasse la situazione limite, c’è pure il Palermo che si gioca la promozione in A con la Ternana, incontro che mai e poi mai Paolo avrebbe perso a condizioni normali. Ma la famiglia anzitutto, perciò ogni singolo secondo va spremuto a dovere per recuperare quanto perso con la moglie, ma soprattutto coi figli.

Momenti di trascurabile felicità è un film fintamente leggero, che dietro la sua scorza ben visibile da commedia cela la sua profonda inadeguatezza nel raccontare una storia che tocca argomenti effettivamente complicati. Lascia perplessi come un racconto apparentemente celebrante la vita, tutto compreso, con le sue gioie e le sue amarezze, finisca col risolversi in un annacquato nichilismo da liceale. Si adopera l’escamotage dell’opera leggera dunque, quella che perciò intende far sorridere senza precludere quel briciolo di riflessione imposta dai temi evocati, quale scusa a cui ricorrere allorché vengono fuori le magagne; in buona sostanza la superficialità nel toccare questioni su cui si dà l’impressione di avere davvero poco da dire.

L’ultimo lavoro di Daniele Luchetti è inframmezzato a più riprese da flashback che raccontano la vita prima della morte di Paolo: il suo essere sostanzialmente un dongiovanni, marito tutt’altro che integerrimo, uomo dalla condotta discutibile non solo per le varie avventure extraconiugali, bensì per via di ciò a cui far risalire queste scappatelle, che sono tutt’al più sintomo. Paolo è infatti un ragazzino, tale è rimasto a dispetto del matrimonio, i due figli, il lavoro e i quarant’anni a quanto pare superati. È così, c’è poco da fare: non è cresciuto, è rimasto quel bimbo che da piccolo andava appresso a una ragazza molto più grande di lui senza sapere, o forse sì, che quello era un amore impossibile. Poi arriva l’amore, quello vero, Agata (Thony), con la quale mette su famiglia; eppure quel tarlo rimane, l’occhio resta vispo, troppo vispo, e stuzzicare altre donne, o farsi stuzzicare da loro, finisce col non rappresentare chissà quale problema.

Ci sono momenti che sfiorano una certa autenticità, è vero, episodi forse nemmeno così marginali nell’economia del racconto, pur restando di contorno; ma che soprattutto non redimono la scarsa consistenza del discorso generale. Si sorride, per dirne una, quando in uno dei tanti ricordi, Paolo s’attacca alla bottiglia d’acqua appena tirata fuori dal frigo e, redarguito dalla figlia, la finisce tutta per poi dire che, appunto, oramai non ce n’era quasi più (quando invece era piena a metà). Situazioni estrapolate da quella quotidianità con la quale è facile relazionarsi, perciò è difficile non sorridere, proprio perché verosimile. Poi però ci sono misure, licenze, come quella di lasciare che Paolo indossi gli stessi vestiti in ogni singola scena: una sorta di realismo magico un po’ forzato che, non a caso, alla lunga stona, confermando peraltro delle ambizioni rispetto alle quali pare si abbia fin troppo pudore (altra fattispecie problematica di cui si dirà a breve).

Con lo scorrere del tempo, ad ogni buon conto, il voler incapsulare la parabola di Paolo secondo quello schema, portando avanti un discorso che sembra rifuggire qualsivoglia giudizio, mentre invece non è esattamente così, ebbene, tutto ciò rappresenta un limite irredimibile, molto più del suo scapestrato protagonista. La risata ancora una volta usata come clava, quel mezzo, non importa fino a che punto dolce, mediante il quale ci verrebbe quasi imposto di sospendere il giudizio circa la pochezza del ragionamento così per come espresso ed elaborato. Dove sta la povertà? Nel volerci convincere che far sorridere sia di per sé sufficiente a dare contezza circa la portata di certi momenti, definiti trascurabili per quanto felici.

Al contrario dell’etichetta, non per nulla, il film di Luchetti non ha alcunché di leggero, men che meno vitale; il che, di per sé, non sarebbe affatto problematico se, al contrario di quanto accade, questo stesso film non si prendesse così maldestramente sul serio, nascondendosi dietro la sua verve comica, o comunque si voglia definire la propensione che sta alla base, pur di non ammettere di voler in realtà trattare di argomenti “alti”. Ammetterlo comporterebbe in automatico muoversi in altri territori, dunque confrontarsi con standard che non sono quelli della commedia agrodolce; quest’ultima affermazione, peraltro, non costituisce alcun giudizio di merito, come se la commedia, qualunque commedia, fosse inferiore, o, per quello che vale, superiore ad altri generi. Si tratta solo d’intendersi rispetto alle premesse, che sono quelle di chi (si) nega un certo tono solo per dare l’aria di essere più accessibile, ergo fingere.

Trattasi di un equivoco dal quale il nostro cinema non riesce ancora a smarcarsi, sbattendoci il grugno sistematicamente, ossia quello di rifarsi a una stagione morta e sepolta, che nulla ha a che vedere con un tempo ed un contesto alieni a quella in cui maturò e s’impose, con non poche fortune. Si allude alla commedia all’italiana, degli Steno, Wertmüller, Comencini, Monicelli, Risi, Scola, Magni e via discorrendo. Espressione di un’Italia che non esiste più, ma soprattutto di italiani che non esistono più, questa ostinazione nel voler reiterare quel fenomeno lì, a mo’ di format, seguita a mostrarsi miope nella migliore delle ipotesi. Oltre a confermare in maniera non poco amara che il nostro cinema di oggi, fatti salvi pochi, isolati tentativi, non ha alcunché da dire né sul presente né, di conseguenza, su questioni più universali come quelle trattati in questo film.

Il tono affabulatore, per certi versi ruffiano, non può sviare a tal punto dall’impedirci di cogliere la scarsa consistenza, il vuoto di fondo rispetto a un argomentare la cui tremenda chiusa non può che risolversi nell’ovvio corollario di tutto quanto si è fin lì detto, nei modi così come nei contenuti; un brano di Celentano che funge da commento conclusivo, quasi una morale per chi non avesse colto l’impeto dietro a un racconto così superficiale, fumoso, che a tratti indossa la maschera funerea della simpatia. E non c’è alcun compiacimento nel dover evidenziare certe cose, affatto. Non si può tuttavia restare indifferenti davanti a un modo così sterile e avventato di raccontare la vita, non importa fino a che punto ci si concentri, con apparente levità, su alcuni suoi passaggi.

[rating title=”Voto di Antonio” value=”4″ layout=”left”]

Momenti di trascurabile felicità (Italia, 2019) di Daniele Luchetti. Con Pif, Thony, Renato Carpentieri, Angelica Alleruzzo, Francesco Giammanco, Vincenzo Ferrera, Franz Santo Cantalupo e Manfredi Pannizzo. Nelle nostre sale da giovedì 14 marzo 2019.