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Cannes 2019, Les Misérables, recensione: il mito del buon selvaggio applicato alle banlieue

Festival di Cannes 2019: competente opera prima che cede qualcosa allorché vuole trasmettere un messaggio

pubblicato 16 Maggio 2019 aggiornato 29 Luglio 2020 19:21

Il piccolo Issa sottrae un cucciolo di leone ad un circo, come fosse un pacco di caramelle. Lo mostra agli amici, ci si fa le foto per poi pubblicarle su Instagram. È così che tre poliziotti lo trovano, ma qualcosa va storto: i tre ufficiali vengono assaliti da un gruppo di bambini, cosicché Issa rimane ferito. Qualcuno ha ripreso la scena, ed allora si tratta di cercare l’autore di quelle riprese, ché se quel video dovesse uscire fuori sarebbe il finimondo.

Sembra quasi che per aversi del Neorealismo sia sufficiente accostarsi all’infanzia in un certo modo, mostrare i bambini quali vittime dei giochi dei grandi; il che, detto così, è tutt’al più vero in parte. Eppure quella di Les Misérables è proprio un’incursione, in parte riuscita, in quel territorio lì. In chiave moderna, certo, con un interessamento particolare al tema narrativo, mentre tutto il resto ha un impianto quasi documentaristico, che mutua da altre stagioni e correnti. D’altronde la ricerca di una certa verosimiglianza non è accessoria; al contrario, così funzionale ad un messaggio che, qualora non bastasse la citazione finale di Victor Hugo, è per certi versi essenziale.

Non un film a tesi, perché Ladj Ly (che ha sviluppato questo suo primo lavoro partendo da un cortometraggio che ha girato anni fa) preferisce che a parlare sia l’azione, “romanzata”, è chiaro, ma che temo non si discosti più di tanto da quanto sia possibile fare esperienza in certe aree della Francia, a Parigi in particolar modo. Tuttavia, non il solito spaccato sulle banlieue, ché il discorso politico viene per quanto possibile eluso, ragionando proprio a livello per così dire umanistico. Chi sono queste persone che vediamo in Les Misérables? E perché sono così? Piccoli o grandi non importa, nel senso che prioritario diventa davvero comprendere il perché rispetto a ciò che dicono, che fanno ma che soprattutto pensano.

Girato bene, buon ritmo, quest’opera prima cavalca più generi, dal thriller al dramma, senza rinunciare pure a qualche nota più leggera per via di alcuni siparietti (tipo quello dei tre gemellini che rispondono all’unisono). Bravo Ly a ricreare un ecosistema credibile, fatto di personaggi che assolvono a certe funzioni specifiche senza metafore o altro, una comunità piccola, atomizzata, che si regge su equilibri molto precari, senza regole, se non inevitabilmente quella del più forte. In fondo quello dipinto da Les Misérables è un vero e proprio inferno a cielo aperto, in cui pressoché ogni singolo personaggio sembra essere stato catapultato suo malgrado.

Non si cerca di puntare necessariamente il dito, anzi, il regista tenta, laddove realisticamente possibile, di umanizzare tutti, buoni e cattivi, quasi a voler in qualche modo non dico giustificarli bensì fornire loro un attenuante, che è poi dove Les Misérables vuole esattamente arrivare. In tal senso Ladj Ly è meno incisivo, perché comunque alla fine pare non sia sufficiente lasciare che gli eventi comunichino da sé, e allora bisogna in qualche modo incanalarli. Hugo d’altronde è un campione di quel periodo storico in cui il paradigma fu ribaltato: da quel momento, siamo sul finire del ‘700, si smise di credere che l’uomo nascesse cattivo; al contrario, nato buono, è la società, il contesto, l’ambiente a renderlo cattivo.

Ed è chiaro che se ci si lancia su questo campo, non si può fare a meno di prendere a nostra volta una posizione in quanto spettatori, senza ribaltamenti di sorta, ma dovendo appunto tenerne conto nell’economia dell’opera nella sua interezza. C’è di buono, va detto, che Ly non si espone, come già evidenziato, non punta il dito, ché d’altronde non sta a lui offrire soluzioni. L’unica è che, appunto, la piega che Les Misérables prende a un certo punto a livello tematico finisce con l’incidere, finendo col semplificare un discorso oggettivamente più complesso. Difetti probabilmente da opera prima, non insormontabili ma tangibili, specie alla luce del fatto che è evidente quanto a Ly interessi non solo delle persone di cui parla ma anche delle dinamiche in cui sono coinvolte.

Se infatti si tratta, fra le altre cose, di dare contezza circa il fatto che quella non sia vita, e non lo sia per nessuno, non solo per i ragazzini che non hanno timore nell’ingaggiare scontri anche violentissimi contro chiunque, adulti e poliziotti inclusi – con quel finale travolgente a testimoniare la ferocia del messaggio – allora Les Misérables è più sulla strada giusta anziché no. Il terreno è accidentato e su tale percorso Ly si muove in maniera quantomeno competente.

[rating title=”Voto di Antonio” value=”7″ layout=”left”]

Les Misérables (Francia, 2019) di Ladj Ly. Con Damien Bonnard, Alexis Manenti e Djibril Zonga. Concorso.

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