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Cannes 2021, Drive My Car, recensione del film di Ryusuke Hamaguchi

Elegante ritratto umano su elaborazione del lutto e rimorso, con Drive My Car Ryusuke Hamaguchi porta a compimento il proprio salto di qualità

13 Luglio 2021 04:30

Yusuke Kafuku (Hidetoshi Nishijima) guida una Saab 900 rossa, immacolata. Non si tratta solo di un mezzo con cui muoversi: a bordo della sua automobile Yusuke vive in un modo che il resto della giornata, quali che siano le attività, non gli permettono. Qualcuno direbbe che dentro quell’abitacolo il nostro si rilassi, ma è chiaro che si tratta di qualcosa di più profondo, un’affinità che a pochi è dato di avvicinare. Con lui, che è un regista teatrale, vive la moglie Oto (Reika Kirishima), una sceneggiatrice. Le prime battute di Drive My Car, in pratica tre quarti d’ora, sono totalmente incentrate su loro due.

Con una precisione chirurgica, la stessa che Ryusuke Hamaguchi applica a tutto il film, in questa fase introduttiva la macchina da presa indugia sulla coppia; più che seguirli li scruta. Sul finire del film viene fatto dire che in fondo il mistero va assecondato per quello che è, senza star lì non solo a spiegarlo ma anche solo a ritenerlo tale; insomma, ci sono cose che vanno in un certo modo, punto e basta, bisogna tutt’al più accettarlo. Ma cosa ne sarebbe di questa lunga parte introduttiva se non avessimo modo d’interrogarci su chi realmente siano Yusuke ed Oto?

Discutono, fanno l’amore, finché lei non racconta a lui una strana storia, una storia che forse è un sogno, o magari è solo inventata. Quando di lì a poco Oto muore per un’emorragia cerebrale, sebbene non sapremmo spiegarlo in maniera compiuta e razionale, c’è qualcosa che ci suggerisce che la dipartita sia in qualche modo legata a quel racconto, che sul momento coglie alla sprovvista persino Yusuke. Quest’ultimo peraltro era al corrente dei tradimenti della moglie, la quale, ignara, ha continuato a coprire il marito di parole dolci e piene d’amore, qualcosa per cui, scopriamo in seguito, Yusuke non riesce a perdonarsi.

Non affrettiamo le cose però, anche perché non sarà certo nostra premura scandire le tappe che portano a quelle conclusioni. Yusuke riceve un’offerta da Hiroshima per dirigere una produzione multilingua di Zio Vanja di Čechov, un’occasione anche per staccare e allontanarsi da un’ambiente che gli ricorda ancora, a distanza di due anni, il tempo trascorso con Oto, ma soprattutto quello non goduto. Giunto sul posto, il regista scopre che gli organizzatori hanno un budget destinato agli autisti, risultato di una pessima esperienza vissuta in passato, ed è per questo che Yusuke è tenuto per contratto ad averne uno. Lui a Hiroshima è arrivato in auto e non ha intenzione di lasciare che sia un’altra persona a guidarla, ma malgrado tutto si convince, ed è qui che conosce Misaki (Toko Miura). Malgrado il passaggio di testimone tra un atto e l’altro del film sia avvenuto poco prima, è di fatto qui, in questo esatto punto, che Drive My Car cambia spartito, cominciando a scandire una lenta e dolorosa elaborazione del lutto, che non riguarda solo Yusuke.

L’ultimo lavoro di Hamaguchi è una storia di fantasmi, sui generis, i quali si materializzano sotto forma di ricordi, rimpianti o semplici oggetti. In qualunque altro contesto, Yusuke che continua ad ascoltare l’audio registrato dalla moglie per aiutarlo ad imparare la sua parte, lascerebbe interdetti. Qui, al contrario, se ne coglie immediatamente il significato, che non consiste solo nella ragione di superficie, ossia la praticità, bensì soprattutto a mantenere vivo un legame venuto meno per sempre. Tutto ciò che covano i protagonisti di questa storia è intriso di questo senso d’irrimediabilità, la tortura del dover andare avanti senza avere più la possibilità di rimediare a qualcosa. Lo si sente alla fine: «coloro che sopravvivono continuano a pensare ai morti».

C’è tuttavia una finezza, oltre che una ricercatezza, nel sondare simili dinamiche, che il dolore di queste persone ci tocca, smuovendoci. Hamaguchi si sta sempre più impadronendo di certe sue peculiarità, in primis la dilatazione delle scene, che solo un occhio distratto, se non addirittura pigro, può equivocare con la mole di dialoghi, che eppure ci sono. I film del regista giapponese sono infatti verbosi, quantunque chi scrive a questo termine non appioppa in automatico alcuna accezione negativa. A differenza di un Ceylan, che nel 2014 vinse con un film, Winter Sleep, basato proprio su un’opera di Čechov, i discorsi di Hamaguchi, che invece si basa su Murakami, non vertono su temi alti; verrebbe da dire che il suo è un approccio meno accademico, senza per questo voler intendere che il regista turco abbia velleità diverse indisponenti.

Al contrario, entrambi sono esempi di cinema purissimo, quello che fa a meno d’imbellettamenti, più difficile da estrapolare, ma, una volta riuscitici, sai che piacere. La differenza, però, per chiudere la parentesi aperta poco sopra, sta nell’asciuttezza del regista giapponese, la quale, unita all’incisività del suo approccio, fa di lui un cineasta atipico, avulso dalla contemporaneità, finanche classico. Mentre però certe misure in cineasti come Eugène Green, altro affiliato alla scuola del ritmo cadenzato, nonché parsimonioso, si vedono, in Hamaguchi no, mai. Quest’ultimo farà pure ricorso a svariate inquadrature ma le sue lunghe scene non risultano mai stirate. Il regista giapponese infatti costruisce con sapienza, non si limita ad allungare il brodo.

Ci sono scene che da sole potrebbero valere un’intera masterclass. Ne cito una, ossia la cena a cui Yusuke viene invitato da uno di coloro che organizzano la produzione dello spettacolo. Menù coreano, quattro persone disposte in maniera impeccabile, tavola imbandita, e un discorso che non stravolge gli equilibri, anzi, ma su cui nondimeno Hamaguchi si sofferma a lungo. Ecco, non si tratta di fornire informazioni finalizzate allo sviluppo immediato della trama: con quella lunga chiacchierata davanti a una serie di appetitose pietanze, la trama si muove a stento di qualche centimetro in avanti, mentre però sotto altri aspetti ci si apre un mondo.

Di queste se ne potrebbero citare svariate, alcune, come la conversazione in macchina con Takatsuki (Masaki Okada), girate addirittura con un’interminabile inquadratura fissa. Questo non perdere mai di vista i propri personaggi, neanche per una frazione di secondo, denota un rispetto verso di loro che alla fine paga su tutte le ruote. I film di Hamaguchi sono lunghi, è vero, ma da questa parte tale ritrosia a lasciarsi condizionare dal tempo, sacrificandogli ciò che più conta, senza però marciarci sopra, ecco, tutto ciò la si considera una grande virtù.

Eppure non solo il tempo, ma la percezione del suo scorrere, e doverci soprattutto fare i conti, non è relegata all’oblio. Giunto a Hiroshima la prima cosa che viene comunicata a Yusuke è quanto tempo ha per la lettura del copione e quanto per provare. E sulla lettura del copione, che si svolge in più giornate, in pratica viene edificato l’intero secondo atto del film. Un vezzo? Macché, ci tocca conoscere gli attori che prenderanno parte alla pièce, perché più avanti, a tempo debito, e solo grazie ad alcuni di loro che noi possiamo conoscere meglio sia Yusuke che Misaki. Chissà poi che, nell’uscirsene con questo scenario, non abbia inciso quanto Hamaguchi ha raccontato avvenne alla vigilia della produzione di Happy Hour (2015), il che avrebbe assolutamente senso e svelerebbe abbastanza in relazione a come opera questo regista.

Ecco, non si può non chiudere su loro due. Quel viaggio fatto insieme alla fine, ultimo tassello di un percorso che di tragitti ne ha visti svariati, è l’epilogo più azzeccato e corroborante che si possa immaginare per questa vicenda. Dopo essersi conosciuti in macchina, aver costruito un legame che ha assunto consistenza sotto i nostri occhi mentre però eravamo impegnati a guardare ad altro, un’ultima corsa svela a entrambi quello che in fondo già sanno. L’estrema professionalità di Misaki, occhi sempre fissi sulla strada, parole poche, mentre un po’ alla volta si apre e, con una discrezione d’altri tempi, assiste alla capitolazione del proprio passeggero Yusuke; la lenta ma inesorabile fiducia che quest’ultimo coltiva scena dopo scena, ripagano la nostra di fiducia, che l’anima di Drive My Car non l’abbiamo messa in discussione anche quando non ci era manifesta.

La cifra, anche in chiusura, è la stessa, quella di una graduale acquisizione di consapevolezza contrassegnata da una placidità non di posa ma di sostanza. Non c’è alcuna maniera infatti in Hamaguchi, anzi, la sua è un’economia abbastanza rigida, codificata, non dico austera, ma senz’altro operante su quei lidi lì. Per questo l’intimità che viene ad instaurarsi, permettendo che le storie di più persone s’intreccino pur senza che necessariamente si tocchino, ha un che di sensato, profondamente vero. Gli occhi di queste anime in pena debbono tornare a vedere, in un modo o nell’altro.

Drive My Car (Doraibu mai kā, Giappone, 2021) diRyusuke Hamaguchi. Con Hidetoshi Nishijima, Masaki Okada, Toko Miura, Reika Kirishima, Park Yurim e Jin Daeyeon. In Concorso.