Home Festival di Venezia Illusions perdues, recensione del film di Xavier Giannoli

Illusions perdues, recensione del film di Xavier Giannoli

Il quarto potere à la francese, da uno scritto di Balzac. Xavier Giannoli si sofferma sulle disillusioni della Parigi post-rivoluzionaria

6 Settembre 2021 04:05

C’è poco da fare, passa il tempo ma certe dinamiche non cambiano. Illusions perdues ovviamente è interamente calato nell’epoca in cui è stato partorito, ossia la prima metà dell’800, da quella mente geniale che fu Honoré de Balzac, la cui grandezza e profondità ha sempre reso oltremodo ostico qualsivoglia processo di trasposizione sul grande schermo. Così vivi i suoi personaggi, così esatte le sue valutazioni, illuminante il suo scavare nelle più variegate operazioni che coinvolgevano le persone del suo tempo, che la sola idea di sottrarre tutto ciò dal proprio elemento (la pagina) appare azzardoso. Insomma, aspetti non di poco conto concorrono a che questo progetto si risolva in una delle tante, insipide sbobbe in costume.

Malgrado tutto, però, Xavier Giannoli si cimenta, e tira fuori un insperato risultato. Non senza limiti e asperità, chiaro, ma il suo tentativo lascia piacevolmente colpiti nondimeno. Il protagonista è il giovane Lucien de Rubempré (Benjamin Voisin, che abbiamo visto di recente in Summer of 85 di Ozon), un tipografo col vezzo della Poesia, innamorato pazzo dell’aristocratica Louise de Bargeton (Cécile de France). Lucien è un popolano, il che rende pressoché impensabile la possibilità di riuscire ad inserirsi in quel mondo lì, malgrado l’amore ricambiato da madame de Bargeton. Tutto però cambia non appena i due decidono di spostarsi dalla periferica Angoulême a Parigi: qui il giovane viene iniziato ad un’attività che nessuno può immaginare così assurda, ossia il giornalismo. È da questo settore che passa il riscatto di Lucien, giusto il tempo di capire davvero come funziona.

Il suo Virgilio è Etienne Lousteau (Vincent Lacoste), più o meno coetaneo, molto più scafato del paesano giunto nella Capitale per affermarsi come scrittore. A tal proposito, viene subito sgomberato il campo da ogni dubbio: con la Letteratura si fa la fame. Soldi e potere arrivano da un altro settore, contiguo ma alieno, ossia l’informazione. È attraverso tale percorso che abbiamo modo di sperimentare la portata stupefacente del lavoro di Balzac, che è un’analisi molto lucida del suo presente, senonché, per forza di cose, lo è anche del nostro. In tempo di fake news e post-verità, confrontarsi col funzionamento della corruzione in quel momento lì, in un ambito così delicato, è sorprendente.

Giannoli non ci risparmia nulla o quasi, e non è così ovvio riuscire a non perdersi nei meandri di certi meccanismi, o perché ci si lascia imbrigliare o perché, al contrario, si resta troppo in superficie per potersene interessare sul serio. L’ascesa di Lucien è altrettanto certa quanto la caduta, una sorta di Barry Lyndon francese, in cerca di riscatto, lui che proverrà pure dal popolino ma che da queste origini intende risolutamente emanciparsi. E con non meno sincerità rispetto a Thackeray, quella sincerità che sa spesso essere brutale, Balzac dimostra quanto certi giri siano inaccessibili partendo proprio dallo scenario, tremendo, all’intero del quale viene illustrato cosa succede a chi ci prova.

Lucien scopre subito che tutto è manovrato, che il potere dei giornali è incredibile, soprattutto perché i parigini, in maniera trasversale, si abbeverano da quelle fonti. Fonti che orientano la quotidianità, facendo il bello e il cattivo tempo: se una recensione stronca qualcuno o qualcosa, ebbene, quel qualcuno o qualcosa l’indomani è destinato/a a scomparire. Spassoso il botta e risposta tra Lucien ed Etienne su come sia a conti fatti facilissimo ribaltare anche la più luminosa delle virtù di un’opera, semplicemente giocando con le parole, trasformando un plus in un malus: in questo consiste la critica; o lo scontro a distanza con quella che diventa la sua nemesi, ossia Nathan (Xavier Dolan), talentuoso scrittore più incline alla Monarchia che alla Rivoluzione, quali che siano le ragioni. Ovviamente si sorride, ma non appena si assiste alle ripercussioni di un mercato del genere si resta interdetti.

Tutto ruota attorno ai soldi, non vi è Morale che tenga; chiunque sa che per restare sul carro bisogna essere pronti a svendersi al miglior offerente, seguendo perciò l’unica legge ammissibile, quella di chi sgancia di più. Inutile farsi domande; in uno dei primi incontri, Etienne offre una coppa di champagne a Lucien, il quale rifiuta: «a breve comincerai a berlo anche tu». Un modo per acquietare la coscienza?

Persino gli applausi o i fischi a teatro sono in vendita, e attoruncoli di quattro soldi possono fare carriera se abbastanza bravi o fortunati da trovare uno sponsor che riempia d’oro tale Singali, uno che durante la settimana allena la sua squadra di demolitori/osannatori professionisti. Giannoli ci accompagna per mano lungo il progressivo svelamento di questo sregolatissimo demi-monde. Un ambiente capace di stritolare chiunque, figurarsi un giovane di belle speranze che non ha mai davvero smesso di venerare la Letteratura, malgrado tutto continuandola a vedere come via privilegiata verso la Bellezza.

Amori, deboscia, doppio-giochi, finanche complotti, Illusions perdues ci dà tutto questo e lo fa nella maniera più classica possibile, dunque alla portata di chiunque. Racchiudere in toto i moti delle righe vergate da Balzac rimane pressoché impossibile, con in più alcune scelte discutibili, su tutte l’onnipresente voce fuori campo, non di rado soverchiante. È vero che non si debba essere vittime di quel principio secondo cui mostrare viene sempre prima di descrivere, e che perciò, quando si parla troppo, vuol dire che qualcosa potrebbe non essere andata con la messa in scena. Invece su quest’ultimo fronte Giannoli lavora più che dignitosamente, con mestiere e attenzione; ecco perché è poco comprensibile la scelta di eccedere con il commento.

Nulla però che azzoppi la tenuta generale di quest’ultimo lavoro del regista francese, scalfendolo magari, senza ad ogni buon conto intaccarlo così in profondità. Rendere avvincente un film in costume del genere è obiettivo che in pochi raggiungono, e per il quale s’ha da essere grati e soddisfatti. Stipare poi così tanta roba in un solo giro da circa due ore e mezza, checché se ne pensi, è proprio da chi sa fare le cose. Un esito dunque felice di suo, impreziosito dalla sua rilevanza qualora rapportato all’attualità, in un momento così particolare, in cui l’autorità dell’informazione, se non addirittura il suo statuto fondante, sta pericolosamente venendo meno. La Storia s’impara sui libri, certo; ma degli uomini, sugli uomini, spesso la Letteratura, così come il Cinema, sanno dirci di più e meglio.

Illusions perdues (Francia, 2021) di Xavier Giannoli. Con Benjamin Voisin, Cécile de France, Vincent Lacoste, Xavier Dolan, Salomé Dewaels, Jeanne Balibar, Gérard Depardieu, André Marcon, Louis-Do de Lencquesaing e Jean-François Stévenin. In Concorso.

Festival di Venezia