Home Festival di Venezia L’événement, recensione del film di Audrey Diwan

L’événement, recensione del film di Audrey Diwan

Una ragazza alle prese con un aborto clandestino nella Francia dei primi anni ’60. L’événement guarda al dato umano e fin lì funziona

pubblicato 6 Settembre 2021 aggiornato 7 Settembre 2021 08:02

Parecchio di L’événement passa dallo sguardo di Anne (Anamaria Vartolomei), la sua protagonista: gli occhi vitrei di chi ha ha fatto una scelta e non intende in alcun modo cambiarla. Il motivo di tale fermezza è la volontà, risoluta, nel voler abortire. Siamo nel 1963 e nella Francia di allora l’aborto era pratica illegale. Sembra davvero di osservare un altro mondo, dove non mancano schizofrenie dovute al passaggio tra un periodo e un altro: disinibite le ragazze, non meno che oggi, ma i tempi per accettare l’idea che interrompere la gravidanza sia un diritto è ancora di lì a venire. Audrey Diwan si concentra più che altro sulle implicazioni dirette, immediate nel dover affrontare una situazione del genere in clandestinità, il che smorza parecchio le implicazioni ideologiche.

Certo, resta forte la posizione, diversamente non credo sarebbe possibile anche solo avvicinarsi ad una storia del genere. E se in tal senso L’événement cede qualche, lo fa per lo più sul finale, troppo liberatorio, rompendo quegli argini che avevano permesso fin lì di procedere per sfumature. D’altro canto l’argomento non smette di essere al centro del dibattito, specie in un periodo in cui una seppur sparuta rappresentanza preme per ristabilire l’ordine precedente a quei moti che resero il ricorso all’aborto non solo un fatto culturalmente accettato ma di regolarlo per Legge, mediante i vari ordinamenti.

La Diwan punta perciò alla quotidianità, optando per una un’estetica decisa, piuttosto contemporanea, per descrivere con piglio quasi documentaristico. E, come spesso accade, sono quei passaggi apparentemente “innocui” a dirci molto, come quando Anne e le sue due amiche ripassano il Presente Indicativo del verbo Agere in Latino; ragazzine coi libri in mano, alle prese con gli studi, prima tappa di un percorso che, nel Dopoguerra industrializzato, laico, le vuole parte attiva del tessuto sociale, non più madri e casalinghe (negli USA il processo fu diverso per via del fatto che la donna mamma e responsabile della casa fu per svariati anni diretta destinataria di numerose campagne pubblicitarie, catalizzatrice di un consumismo vieppiù soverchiante).

Tolti i cenni storici, la macchina da presa della Diwan segue Anne in questa sua lotta contro il tempo, con il conto delle settimane che scandisce i vari insuccessi, mentre monta la paura e si pensa non vi sia proprio modo di venire a capo del problema. La giovane capisce di averla fatta grossa ma è solo rapportandosi con gli altri che comprende quanto la situazione sia grave. Essere incinta, come le ripetono le sue amiche, è la fine del mondo. Lei, Anne, è sola, piccola, con in mano i suoi sogni e nulla più. La lotta contro il tempo di cui sopra è anzitutto contro sé stessa, la paura, a un certo punto, di trasformarsi in una madre. Infatti è proprio con l’idea di maternità che la ragazza deve scontrarsi costantemente, l’unica condizione che possa portarla, una volta acquisita, a tornare sui propri passi. È devastante assistere a quali torture la giovane si sottoponga pur di far sì che questo che tale processo non giunga a compimento. Una violenza che però non è solo fisica ma anche psicologica: registrare dei cambiamenti nel proprio corpo, giorno dopo giorno, eppure non poter dire alcunché ad alcuno; vedere le sue amiche continuare con le loro vite mentre lei, Anne, a breve rischia di dover rinunciare a tutto.

D’altro canto il riscontro con la realtà non l’aiuta: in tutto ciò Anne è abbandonata a sé stessa, sia da colui che dovrebbe essere il futuro padre, così come da un’intera comunità, che, arrivati a un certo punto, è per lei una vera e propria minaccia, in quanto incapace di tollerare la sua presenza. Alla luce di quanto appena ravvisato, come qualcuno ha fatto a ragion veduta notare, L’événement assume finanche i modi della fantascienza nella misura in cui Anne, novella Ripley, deve confrontarsi con l’Alien che porta in grembo, e che la rende pericolosa per sé stessa e per gli altri. Il rischio connesso alla sua situazione, rispetto a chi le sta attorno, è per lo più quello di finire in galera, ed è questa un ragione ulteriore per cui la giovane si trova costretta ad auto-isolarsi. Non più perciò la paura di contaminarsi, anche solo spiritualmente; al posto di queste tensioni, oramai ampiamente superate, c’è una sola malattia che si ha paura di contrarre, ossia quella di perdere la propria libertà, letteralmente (la prigione) o in un altro senso (non poter più scegliere che strada prendere, non potere più divertirsi come fanno gli altri).

Da un lato perciò quest’opera seconda di Audrey Diwan emerge per una messa in scena notevole, senza fronzoli, efficace, specie nell’evitare di trasformare la sofferenza della sua protagonista in uno spettacolo gratuito perciò becero. Dall’altro manca la chiusa, discutibile lo stacco tra la penultima e l’ultima scena, come detto insolitamente trionfale, come se tutto ciò che Anne ha passato fin lì fosse rientrato, specie in così poco tempo. Dubito che la regista lo pensi, per questo mi spiego l’accento arioso su cui si conclude la vicenda solo come espressione di abdicare all’equilibrio sin lì per lo più mostrato, mettendolo da parte per amore di lasciare sia Anne che lo spettatore con una nota alquanto forzata.

L’événement (Francia, 2021) di Audrey Diwan. Con Anamaria Vartolomei, Kacey Mottet-Klein, Luàna Bajrami, Louise Orry Diquero, Louise Chevillotte, Pio Marmaï, Sandrine Bonnaire, Anna Mouglalis, Leonor Oberson e Fabrizio Rongione. In Concorso.

Festival di Venezia