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Noah: Recensione in Anteprima del film di Darren Aronofsky

Noah, ovvero il progetto più ambizioso di Darren Aronofsky. Tratto da una rivisitata pagina del Genesi, ecco la storia di Noah, della Creazione e di come sia possibile rielaborare il tutto ai giorni nostri. Oppure no

pubblicato 10 Aprile 2014 aggiornato 31 Luglio 2020 02:44

Noah il visionario. Noah il risoluto. Noah il sovversivo. Noah l’uomo di Dio. Va bene. Anzitutto, però, Noah di Darren Aronofsky. Da anni cullato, finalmente Hollywood consente ad uno dei suoi oramai pochi enfants terribles di cimentarsi in un progetto che definire sentito è dire poco. Riscrivere, interpretare, o semplicemente trarre ispirazione dall’episodio biblico dell’Arca di Noè è stato per lungo tempo un sogno per Aronofsky, che lo ha coltivato pazientemente finché non è giunta la sua ora.

Uno di quei film destinati a spaccare in due mezzo mondo, per forza. Un kolossal a tema biblico, così chiacchierato, finisce con lo scucire un’opinione anche a chi si dice totalmente disinteressato. È il fascino della vicenda, così radicata nella nostra cultura; componente su cui furbescamente fa leva il cineasta di Brooklyn, perché in fondo non c’è bisogno di chissà quale processo alle intenzioni per vedere il gioco di Aronofsky. Uno che qui si diverte a prodursi nelle speculazioni più improbabili, non tanto in relazione alla loro verosimiglianza quanto alla mole di elementi così disomogenei che propone. Un prodotto che di religioso ha inevitabilmente i contorni, ma che si perde proprio nel momento in cui sfocia nello spirituale. Perché tende anche a quello, sì.

Anzitutto un fantasy, dunque infarcito di un incalzante simbolismo, sovente spericolato. Un po’ come Il Signore degli Anelli; solo che le storie di Tolkien sono supportate da un universo strutturato, solido, pregno di dettagli, mentre invece Aronofsky procede a tentoni nella (ri)costruzione di un contesto che attinge da dovunque possa far comodo al regista. In tal senso la sua è una sorta di midrash cinematica postmoderna (cit.), un tritato di frammenti attinti qua e là, impastati, pestati e maciullati in questa massa a dire il vero sospettosamente informe che è Noah; il tutto basato sull’impianto specifico della vicenda riportata nel primo Libro della Bibbia.

Un’operazione che rappresenta il tentativo, di nuovo, di dare vita ad una cosmogonia appetibile alla nostra epoca, filtrata attraverso un estro eccessivo, talvolta smodato. E dire che Aronofsky ci aveva già provato una volta, con quel The Fountain – L’albero della vita che fino a ieri, non a caso, rappresentava il suo lavoro più temerario e meno riuscito al tempo stesso. Tale e tanta era evidentemente la voglia di tratteggiare un’origine (l’Origine) che il regista ha optato per una soluzione calcolata, assumendosi delle responsabilità enormi. Provateci voi a mettere d’accordo atei, indecisi e credenti (di qualunque denominazione, ché Noè è grossomodo patrimonio condiviso), scettici con pregiudizi e simpatizzanti con pregiudizi. Chi di dovere sapeva che si sarebbe trattato di tenere un piede dentro e un piede fuori dalla linea, costretto a proseguire saltellando come in un campo minato.

In fondo di connessioni se ne potrebbero costruire a bizzeffe, anche perché la versione di Aronofsky è talmente libera e senza freni che ci si scriveranno senz’altro interi saggi, a sfondo teologico e non. Ma tutto ciò per ora a noi poco interessa, poiché in questa sede tocca scandagliare alcuni passaggi essenziali, giusto per inquadrare ciò di cui si sta parlando.

Il mondo così per come lo vediamo all’inizio del film è il risultato di un’escalation di violenza, culminata in un contesto invivibile, del tutto abbandonato a sé stesso. Noah e la sua famiglia, moglie e tre figli, vagano per terre desolate cercando di sopravvivere a tanta follia. È la parte fantascientifica questa, quella che potrebbe benissimo essere seguita ad un fallout nucleare: insomma, un azzeramento della civiltà su scala globale. Già qui l’edificio di Aronofsky comincia a scricchiolare, esponendo delle crepe all’estremità per cui di lì a poco temi il peggio. Proseguiamo.

Ad un certo punto, dopo averci introdotto in questo mondo, s’ha da passare allo step successivo, ossia la reazione ad una situazione così tetra. La risposta sono le visioni in sogno di Noah, il quale non dubita nemmeno per un istante che quelle immagini siano indotte dal Creatore. Perché vedete, qui l’eloquenza biblica prende il sopravvento; nell’Antico Testamento in particolar modo nessun autore non si preoccupa di una questione tutto sommato “recente” come stabilire se Dio esista o meno. In Noah questa presenza è data per scontata, sia da chi la asseconda con benevolenza sia da chi la avversa: viene chiamata Creatore, e non si muove foglia che Lui non voglia. Chi dunque volesse squalificare in toto l’aderenza alla fonte deve anzitutto confrontarsi con questa traccia.

La seconda fase si apre con la realizzazione dell’Arca. Qui la vena fantasy previene ogni cosa, tra angeli caduti divenuti dei simpatici colossi di pietra e semi piantati da cui sgorgano acque infinite e sconfinate distese di verde. Siamo in piena mitologia. È la parte centrale della storia, la più delicata, quella che definitivamente spiana il campo per il punto che costituisce il climax del racconto: il diluvio. Lo si aspetta vivendo ciò che lo precede come un lungo preambolo, debole e privo di mordente; finché non arriva e si consuma con una velocità disarmante.

Terzo atto. Di questo non ve ne parliamo perché qui Aronofsky tira le fila del discorso; un argomentare che sino a quel momento vola troppo in alto, disseminando parentesi che non di rado sono anche solo elementi estemporanei, i più svariati. Simboli, rimandi, tutto incastonato in un ragionamento che già da prima parte per la tangente. Parecchio si potrebbe dire sulla banalità di certe derive, sorprendenti perché a tratti il film ha tutta l’aria di qualcosa che valga più di quanto osserviamo.

Un estenuante sfoggio di ambizione costantemente frustrato da alcune scelte francamente inefficaci, laddove non addirittura esagerate. L’esperimento di Aronofsky è ardito, il che è l’unica sebbene non indifferente attenuante che gli si può concedere. Il regista de Il cigno nero si adopera in questa riscrittura in salsa fantasy/post-apocalittica di una pagina famosissima, gettandogli dentro un po’ di tutto. Perché Noah è il Genesi e l’Apocalisse di San Giovanni in una sola portata; il suo protagonista è l’epitome dell’uomo di Dio destinato ad essere perseguitato, osteggiato, odiato ed infine risarcito – in lui c’è Abramo, c’è Giobbe, c’è il popolo ebraico stesso, il «l’eletto e perennemente perseguitato»; l’alpha e l’omega della creazione. Dato che in Genesi non c’è traccia di alcuna introspezione psicologica, ad Aronofsky tocca colmare i buchi; da qui i richiami al Peccato Originale, dunque al dualismo spicciolo dell’uomo internamente diviso tra Bene e Male – anche se ad un certo punto Noah viene dipinto più come un fanatico che altro. Argomenti su cui ci si sofferma quasi en passant, perché non è quello lo scopo quindi ci si deve accontentare.

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Tutto ciò non riesce però a sventare la minaccia rappresentata dalla comicità, non sappiamo dire se volontaria o meno, di certe scene. I due giovani in campo medio col sorriso beffardo al ritorno dalla piccante e fruttuosa scappatella nel bosco; il ragazzino tormentato dagli ormoni impazziti che chissenefregadellavolontàdivinaiovoglioscopa’; il cattivo che fa breccia nell’Arca sterminando intere razze animali; la sbornia successiva al mission accomplished. E questo per rimanere ad alcuni degli strafalcioni più palesi, ché su certe “intemperanze” interpretative ci sarebbe da discutere ma in fondo questa versione è a priori intoccabile proprio perché è una versione, e forse è bene che sia così. Prendere o lasciare.

Ma il peccato, per restare in tema, più grave commesso in questo film è che nonostante tutto, strano a dirsi, non risulta in toto noioso. Ha un suo perché, scoprendo qua e là alcune chiavi interessanti, salvo poi farle sparire qualche istante dopo e lasciarci per giunta con l’amaro in bocca. Che poi, per carità, ci sarebbero pure alcuni colpi d’occhio notevoli, del tutto vanificati però nell’immediato, senza necessariamente scomodare l’insieme.

Questo Noah è tanto. Troppo. L’universo creato da Aronofsky appare improvvisato, messo insieme alla bisogna in funzione non tanto della storia ma di alcuni suoi punti, quelli in cui il regista vuole dire a tutti i costi la sua sul perché e per come; scelta azzardata, voluta o meno che fosse. Così per com’è il film si sostanzia per lo più in un collage visivo di impressioni, spunti, intuizioni che non arrivano quasi mai a costituirsi in concetti. Il buon Darren, che chi scrive tendenzialmente apprezza, si produce in alcune finezze come il montaggio forsennato nello sviluppo della Creazione, oppure qualche panoramica da mozzare il fiato. E non vogliamo essere scontati nell’affermare che a quel prezzo tutto ciò fosse il minimo, perché le idee non si comprano. Ma allora si prenda atto che non bastano né i soldi né l’ambizione per creare qualcosa di veramente grande, quando nemmeno un regista come Aronofsky, al secondo giro, riesce a tenere il passo delle proprie di ambizioni. Già che non è cinema per tutti.

Voto di Antonio: 5
Voto di Federico: 5
Voto di Gabriele: 4

Noah (USA, 2014) di Darren Aronofsky. Con Russell Crowe, Jennifer Connelly, Ray Winstone, Emma Watson, Anthony Hopkins, Logan Lerman, Douglas Booth, Martin Csokas, Jóhannes Haukur Jóhannesson, Arnar Dan, Kevin Durand, Dakota Goyo, Mark Margolis e Madison Davenport. Nelle nostre sale da oggi, 10 aprile.