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Paranoid Park: recensione

Paranoid Park (Paranoid Park, USA, 2007) di Gus Van Sant; con Gabe Nevins, Jake Miller, Daniel Liu, Taylor Momsen, Winfield Jackson.Un ragazzo entra in doccia. Apre il rubinetto, l’acqua scende. Gli bagna i capelli, e man mano che l’acqua inizia a scorrergli addosso il ragazzo si porta le mani al viso. Per coprirsi, rendendosi conto

10 Dicembre 2007 18:51

Paranoid Park Gus Van Sant Paranoid Park (Paranoid Park, USA, 2007) di Gus Van Sant; con Gabe Nevins, Jake Miller, Daniel Liu, Taylor Momsen, Winfield Jackson.

Un ragazzo entra in doccia. Apre il rubinetto, l’acqua scende. Gli bagna i capelli, e man mano che l’acqua inizia a scorrergli addosso il ragazzo si porta le mani al viso. Per coprirsi, rendendosi conto di ciò che ha fatto e di ciò che potrebbe essere. E’ forse la scena più bella di Paranoid Park, il nuovo film di Gus Van Sant per cui il regista ha vinto il Premio del 60° anniversario a Cannes 60. Ma non solo: quella è sicuramente una delle scene del 2007, e ci sono pochi dubbi che d’ora in poi Van Sant verrà ricordato anche per questo momento, che rivela ancora una volta la poesia di un narratore controcorrente ma lucido più di quanto non si possa credere.

Non scende a compromessi Van Sant, che quando fa il suo cinema, che è studiato ma sincero, sa già che incontrerà il parere favorevole di alcuni e verrà tuttavia osteggiato da molti. Paranoid Park è il corollario perfetto della trilogia del silenzio, iniziata con Gerry e proseguita con Elephant e Last Days; ma è anche una piccola summa di un percorso che non lascia nulla al caso. Se il puzzle psicologico dei suoi ragazzi si va allargando e si compone sempre di più, con Paranoid Park Van Sant raggiunge uno dei punti tecnici più alti della carriera. Senza esagerare, questo è il suo film più bello da vedere e godere.

Non solo la fotografia (ci credo, Christopher Doyle non è il primo direttore della fotografia pescato per caso), non solo la scelta “stonata”, cinefila e ipnotica delle canzoni (da Rota a Beethoven), ma anche una coscienza cinematografica che si ricorda di ieri (Mala noche e Belli e dannati, con la super8 a seguire le gesta degli skater) e non abbandona le analisi recenti (i pedinamenti di Elephant, i silenzi estremi di Last Days).

Gus Van Sant è l’unico narratore possibile, oggi, della tragedia “giovane” e del pensiero incosciente degli adolescenti, che non hanno ancora una capacità critica verso il mondo in cui vivono (perché non lo conoscono e non gli è dato modo di conoscerlo -vedi i discorsi di Alex sull’Iraq-: e qui si ritorna direttamente alla tragedia della Columbine) e tuttavia devono già affrontare terribili rese dei conti, sensi di colpa pesanti come macigni, dolori impossibili da urlare e raccontare. Dopotutto, il dolore di Alex (il freddissimo e impassibile Gabe Nevins, che Van Sant riprende spesso in primi piani) è grande quanto quello del musicista Blake, e il suo disagio si affianca a quello dei vari Matt Dillon, Matt Damon e River Phoenix, ragazzi di strada e di vita accomunati dal disagio e dall’eterna incomunicabilità.

Van Sant spezzetta il racconto, ci fa entrare nel mondo di Alex attraverso il suo modo di pensare, di ricordare, di vedere. L’amore di Van Sant per i suoi ragazzi non è malizioso come qualcuno vorrebbe far credere: l’amore per il mondo dei giovani va ben oltre. Raccontare il loro mondo è per questo regista unico e insostituibile il motivo per continuare a fare cinema, anche a costo di sonori flop. Paranoid Park è un film che cresce dentro, e il giorno dopo fa ancora più male. E’ sicuro che non tutti sono pronti per Paranoid Park: è anche vero che non è un cinema per tutti. Ma è un cinema che vale la pena continuare a difendere a spada tratta, ad analizzare, o forse semplicemente a sentire sotto la pelle.

Voto Gabriele: 9