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Qui: Recensione del documentario di Daniele Gaglianone

Milano Filmmaker 2014: l’interminabile affare TAV, visto attraverso gli occhi di chi lo sperimenta in prima persona. Daniele Gaglianone dà loro voce in Qui, senza però andare oltre lo sfogo collettivo

pubblicato 3 Dicembre 2014 aggiornato 30 Luglio 2020 20:02

«A tale ora, a tale giorno, sono diventato no-TAV». A parlare è l’ex-sindaco di uno dei paesi toccati dall’enorme cantiere della linea Torino-Lione. «Non è un film sulla Val di Susa», si affretta a chiarire Daniele Gaglianone, autore di Qui. Perché in quel determinato punto si sta consumando una delle pagine più allucinanti della nostra storia, che ci riguardi o meno, a prescindere dalle singole posizioni. Ma sono le parole di quel sindaco, quel suo distinguere così nettamente tra un prima e un dopo, a non potere lasciare indifferenti.

Nelle prime battute, Gaglianone segue una signora del luogo, no-TAV convinta, che organizza raduni di preghiera non solo per affidare la loro causa al Padreterno, ma anche per “sensibilizzare”. E c’è un dentro e un fuori le recinzioni, che distingue gli alleati dai nemici, come nei lager, come nella Berlino del Muro; al che il più semplice scambio di battute appare surreale, mentre la cattolicissima signora motteggia gli operai, scattando loro foto perché «non lo sopportano».

Anche certe cose ci danno una dimensione del livello “der dibbattito”, che eppure è serio, parecchio. Talmente serio che più e più volte quell’area, apparentemente tranquilla, è stata teatro di scontri da guerriglia urbana, o agreste, dato il contesto. Poliziotti che fanno il «proprio lavoro» caricando senza discernimento, lanciando fumogeni; manifestanti che cercano di opporsi come possono, anche ricorrendo alla violenza se del caso.

Un brutto affare questo, di cui però Gaglianone ricostruisce poco. Partendo dal più che generoso ma irreale presupposto che l’argomento TAV si conosca, il suo Qui si risolve essenzialmente in uno spazio entro cui prodursi in uno sfogo collettivo, quello di chi la TAV proprio non ce la vuole. I motivi? Evidentemente ci sono, ma il discorso rimane al «le nostre ragioni sono meglio delle loro», sebbene sia evidente che le cose siano un po’ più complesse, diversamente non si spiegherebbe una resistenza che dura da così tanto tempo, immutata nelle forze.

Presentando il film, prima della proiezione, Gaglianone dice di aver riflettuto su una domanda che in tanti gli hanno rivolto in questi giorni: perché nessuno ha mai pensato di girare un documentario su questa faccenda prima di te? Ma se il regista ammette di non avere ancora trovato una risposta, dal canto nostro ci pare che Qui ne contenga una, o parte di essa. Alla luce di quanto si vede, infatti, il vero problema sembra essere che non è stato affrontato alcun problema. Da un lato abbiamo lo Stato, intransigente e imperterrito nel perseguire un progetto di cui, dicono, non possiamo fare a meno. «No», tuonano gli abitanti di quelle zone, ma non solo. Sì, anche perché di lì non intendono muoversi, ma c’è di più, come i rischi per la salute, i danni all’ambiente e via discorrendo.

Eppure non c’è contraddittorio, perché la posizione di Qui è chiara, pure troppo. D’altronde nel limitarsi a dare voce a chi di solito non ce l’ha, la conseguenza implicita è quella di finire per simpatizzare verso chi subisce soprusi, angherie e abusi da un corpo di polizia troppo solerte nell’anteporre le “ragioni di stato” a quelle dei cittadini. Purtuttavia lascia perplessi la più vecchia delle misure, quella che per restituirci nettamente la figura del “cattivo” di turno prevede che a quest’ultimo non si dia mai la parola, mettendo in risalto solo quanto di turpe commette. Il che è vero, perché gli episodi incresciosi di cui si sono macchiati tanti poliziotti, con la complicità della politica a più livelli, non mancano; ma sono una parte della verità, quella che peraltro non ci consente di farci un’idea su ciò che più dovrebbe interessare, ossia l’affare TAV. Losco, poco chiaro, tutto quello che si vuole: ma solo il rigurgito di un’epoca che è oramai morta e sepolta può indurre a credere che in certe dinamiche possa regnare la trasparenza più assoluta. La storia, ancor prima che la cronaca, ci dicono esattamente il contrario.

Dunque torniamo a quella domanda: perché solo ora un documentario del genere? Semplice. Poiché ancora non siamo pronti. Non Gaglianone, non gli abitanti della Val di Susa. Noi italiani, tutti. Chiusi ancora nei nostri recinti, veri o immaginari che siano, totalmente avulsi da quella visione d’insieme, di destino comune, che latita sia tra i sostenitori che tra i detrattori delle cosiddette grandi opere, destinate nel nostro territorio a non risolversi mai, continuando potenzialmente all’infinito. O all’abbandono.

Che poteva fare dunque Gaglianone se non, a sua volta, scegliere da che parte stare? O per lo meno, verso chi simpatizzare. Perché si prende a cuore un’anziana oltreché simpatica signora che racconta di quella volta che s’incatenò con un paio di manette comprate in un sexy shop, senza sapere come usarle ma dalle quali sfilò la pelliccia che le ricoprivano. Si sorride, si sdrammatizza. Il che fa bene. Ma alla fine del film ne sai quanto prima, con una dose di rabbia e tristezza in più.

Quali che fossero le aspettative dell’autore, era più che doveroso aspettarsi di più. Non la parola fine, ma un contributo interessante, questo sì; uno che ci ricordasse perché, nell’Italia unita, il problema di un piemontese debba essere tale anche per un calabrese. Ma sopratutto, magari, offrire degli spunti, ché le soluzioni (e solo quelle) spettano esclusivamente alla politica. Ma chissà dove avrebbe condotto un simile argomentare…

Voto di Antonio: 5

Qui (Italia, 2014), di Daniele Gaglianone.