Home Curiosità Tribeca 2016, commento: tra film e ricerca, spunta il primo capolavoro in realtà virtuale

Tribeca 2016, commento: tra film e ricerca, spunta il primo capolavoro in realtà virtuale

Tribeca Film Festival 2016: documentari meglio dei film narrativi, troppe sezioni che hanno creato un po’ di confusione, e tante domande sul futuro di cinema, VR ed esperienze ‘immersive’. Ma anche il primo capolavoro in realtà virtuale: il film d’animazione Allumette.

pubblicato 24 Aprile 2016 aggiornato 28 Agosto 2020 12:13

Che poi avevamo provato a prevedere un po’ in che direzione sarebbe andato il Tribeca Film Festival 2016 (qui i vincitori), e ne abbiamo avuto la conferma. Ma di assistere ad almeno un grande ‘evento’ (ormai le definizioni e i nomi non sono mica più cosa sicura, da queste parti) forse non ce lo aspettavamo in fondo.

Tribeca ha decisamente puntato sulla realtà virtuale e sui progetti immersive, e forse ha fatto bene: perché questa edizione resterà l’anno della prima mondiale di Allumette, film VR d’animazione di 20 minuti che segna un clamoroso passo in avanti per la realtà virtuale.

Ad oggi è probabilmente a oggi il ‘contenuto audiovisivo’ dell’anno. La realtà virtuale non è cinema? Il modo con cui si consuma lo taglia fuori dall’essere Settima Arte? Benissimo, ma a un certo punto chissene e accantoniamo i ragionamenti per un attimo: perché Allumette entusiasma e ci fa vivere qualcosa che non avevamo mai fatto.

Diretto da Eugene Chung e sviluppato dai Penrose Studios, è ambientato in una città che assomiglia a Venezia o un’antica città italiana: solo che è sospesa in cielo tra le nuvole e su diversi livelli. Indossando il visore HTC Vive, che permette come l’Oculus Rift (e Playstation VR, tra poco in mercato) di ‘posizionare’ chi guarda all’interno del mondo del film VR, ci si può muovere letteralmente dentro al film.

Dentro Allumette ci si cammina, si avvicina il volto ai piccoli personaggi animati che camminano su un ponte ad altezza spalle, si guarda giù per vedere una piazza su una nuvola, si guarda su per vedere arrivare un battello volante. Poi si ficca letteralmente la testa dentro il battello per vedere cosa sta accadendo dentro.

La storia, incentrata sul commovente legame tra una madre e la figlia, è semplice ed emozionante. Miyazaki, Burton e Chomet dovrebbero vedere Allumette e restarne orgogliosi, perché la sua magia viene da lì. Poi c’è la tecnica, al servizio dello stupore per un mondo del genere e della sensazione di farne parte per davvero. Vedremo come l’animazione VR evolverà in questo senso, ma è ovvio che questa sia già una pietra miliare.

Allumette fa parte della sezione VR Arcade, una delle (troppe) sottosezioni del programma-monstre di Tribeca. Al quinto piano degli Spring Studios a Tribeca è stato allestito un vero e proprio mini-festival con diverse postazioni per visionare i progetti. A spiccare sono anche Killer Deal, ironico e sanguinolento horror dai creatori di Sharknado, che ha fatto urlare più di una persona, e Dragonflight, videogioco in cui si sale su un drago e si vola nei cieli di una città medievale alla Game of Thrones sputando fuoco.

Nella sezione Interactive, invece, al sesto piano dello stesso edificio si è allestita nel primo weekend una enorme stanza per progetti VR ed ‘immersivi’, un vero ‘parco gioco’ per adulti, geek e curiosi. Tra bare dove essere rinchiusi nel buio totale vivendo dal punto di vista uditivo gli ultimi 4 minuti di vita di persone famose (Kennedy e Whitney Huston), videogiochi in VR dove suonare e colpire orsetti e caramelle, e modellini di BB-8 attivati col pensiero, questa divertente sezione di Tribeca suggerisce che le diverse possibilità per i content creator oggi sono infinite, e la tecnologia è sempre più avanti di dove immaginiamo sia.

Ma i film? C’erano, e visto quello che abbiamo esplorato finora sembra già una gran notizia. I documentari, come volevasi dimostrare, sono stati in media meglio dei film narrativi. Il vincitore della sezione dedicata ai documentaristi emergenti l’ha giustamente vinta Untouchable di David Feige: si tratta di una sconvolgente esplorazione della legge americana che punisce i sex offender, cappello in cui si ritrovano pedofili ma anche persone che hanno commesso semplici atti osceni in luogo pubblico. Devastante e tristissimo.

All this Panic, il Boyhood del documentario, segue alcune ragazzine nel corso di anni e anni a New York: sognano, crescono, si scontrano con la vita. Anche se ha una confezione fin troppo rarefatta e perfetta che all’inizio può destare sospetti, il film ha il suo potente impatto emotivo. Così come c’è l’ha anche Memories of a Penitent Heart, lo Stories We Tell dell’anno, esplorazione di una regista che ha deciso di indagare sul passato di uno zio morto troppo giovane: più indaga e scopre cose, più l’identità della famiglia si trasforma.

La qualità media dei film narrativi si attesta attorno a Tiger Raid, deludente opera prima dell’irlandese Simon Dixon, ed Equals, l’orrido filetto di Drake Doremus (involontariamente il film etero più queer degli ultimi anni) che A24 ha tentato di rilanciare dopo il fiasco veneziano. Però Tribeca si porta a casa Always Shine di Sophia Takal, sorta di cugino di Queen of Earth in cui due amiche, attrici emergenti, si confrontano tra delusioni e invidie.

Tra omaggi a De Palma, Lynch e Bergman, la regista – bravissima soprattutto nella direzione delle attrici: e se ci fosse una giustizia agli Oscar, Mackanzie Davis dovrebbe essere già in mezzo alla discussione – trova una voce personale, sensuale e inquieta. Una voce che magari non convincerà tutti (la piega presa dal film nella parte finale fa traballare gli equilibri), ma accidenti…

Tribeca ha così non proprio dato molte risposte sulla confusione tra ‘mezzi’ (ugh), e anche l’evento di chiusura – Bomb, che mentre scrivo ancora non ho avuto modo di ‘vedere’/vivere – non è un film tradizionale ma un’esperienza immersiva di un’ora. Quel che è certo è che il futuro è passato qui a Tribeca, e una delle sorprese personalmente più emozionanti dell’anno era nascosta qui.

Mi riferisco di nuovo ad Allumette: a un certo punto, impazzito di curiosità, ho ficcato la testa dentro alle mura di una delle parti della città, e ho visto un bimbo seduto per terra in una parte che mai avrei potuto vedere se non avessi immerso appunto la testa tra le mura: chi è, che fa lì, qual è la sua storia? Una specie di easter egg? E perché mi sono emozionato così tanto nel vederlo, nel trovarlo, nello scoprire che era lì? Era quello il mio vero ruolo di ‘spettatore’? Essere pro-attivo e ricevere un cambio un’emozione extra?